Recruiting: un vantaggio competitivo per l’innovazione
Il mondo del recruiting è cambiato profondamente da quando il mercato dei talenti è diventato altamente competitivo. Le aziende come possono attrarre giovani professionisti?
Tutte le imprese hanno bisogno di fare recruiting per aggiungere forze fresche e, soprattutto, nuove competenze, al proprio team. Oggi, ancor più che in passato, si ricercano persone in brado di facilitare la sfida che l’accelerazione tecnologica e la trasformazione digitale impongono alle imprese.
Ecco allora che si fa scouting, selezione accurata e, non ultimo, formazione dei neo assunti. Facile, no? Affatto. Secondo la Bersin & Associates, società leader nelle Human Resources, il 74% delle aziende ottiene risultati subottimali dalla propria attività di recruiting.
Quali strategie di ricerca del personale è bene implementare, allora? Che qualità deve avere un buon recruiter? Deve essere interno all’azienda? Oppure la migliore strategia è l’esternalizzazione?
Vediamolo insieme.
Che cosa vuol dire recruiting?
Quasi tutto quello che sappiamo in termini di gestione delle Risorse Umane viene dagli Stati Uniti. È lì che è nata l’attenzione per il dipendente. Presente, passato e futuro.
Si utilizzano, infatti, termini inglesi per descrivere questi processi, generando talvolta confusione in chi si approccia a questo argomento.
La differenza tra recruiting e recruitment è, per esempio, puramente grammaticale. Il primo identifica “il reclutare”, il secondo, “il reclutamento”. La sostanza però non cambia.
Recruiting, o recruitment, che dir si voglia, il processo aziendale è il medesimo. La Ricerca, la Selezione e l’Assunzione di candidati qualificati.
Il rapporto con le Risorse Umane è sinergico ed evidente. L’impresa deve prima individuare i suoi fabbisogni professionali, che si traducono in job position vacanti. Una volta creata la job description, inizia il processo di recruiting. Attività lunga e articolata, come puoi vedere qui sotto.
- Attraction dei candidati – Prima di tutto, bisogna saper attrarre candidati interessanti. Una buona strategia di attraction colpisce il target in linea con i desiderata dell’azienda e non se lo fa scappare. Infatti, il modo in cui si comunica un’offerta di lavoro è importante: l’immagine dell’azienda deve risultare attraente, altrimenti non cattureremo l’attenzione dei veri talenti.
- Selezione del personale – La selezione è la fase più complessa del recruiting perché deve essere veloce, ma efficace. In media, un’azienda riceve 250 candidature per ogni posizione di lavoro e, se l’attraction ha funzionato, saranno quasi tutte valide e intriganti. Il primo step è lo screening dei CV a cui segue poi almeno un colloquio. Anche in questo caso, occhio alla candidate experience: è importante non essere eccessivamente respingenti poiché una persona non adatta alla posizione oggi, può esserlo per una che si apre domani.
- Onboarding dei neoassunti – Abbiamo trovato il candidato ideale e lo assumiamo. Può dirsi un dipendente a tutti gli effetti? No, non ancora.Il periodo di prova che segue la firma del contratto è l’ultimo miglio del recruiting, una fase cruciale. È necessario, per esempio, trasferire al lavoratore le policy e le procedure interne nonché la storia, la mission, i valori e gli obiettivi dell’impresa. Formazione e l’apprendimento sul campo restano ancora gli strumenti più validi in tal senso, accompagnati da momenti di socializzazione con i colleghi. Le aziende più innovative usano spesso la gamification: il gioco, infatti, incentiva il team building molto più di che una lezione verticale.
Per un onboarding efficace, l’ideale sarebbe personalizzare l’accoglienza lavorando a partire dal carattere e dalla seniority dei neoassunti.
Onboarding: quali vantaggi per le aziende?
Un buon onboarding produce effetti a lungo termine. I suoi obiettivi sono pochi, ma sfidanti:
- Costruire relazioni positive tra neoassunti e personale di struttura;
- Consolidare l’impressione positiva dell’azienda;
- Rinsaldare la fiducia nel team in cui la nuova risorsa viene inserita.
Un onboarding poco soddisfacente può spingere il lavoratore a lasciare l’azienda. Mentre un inserimento ben riuscito permette al neoassunto di essere produttivo sin dal primo giorno.
Per realizzare un onboarding di successo, è necessario un periodo di affiancamento di almeno tre mesi. Tuttavia la maggioranza delle imprese vi destina solo pochi giorni, o addirittura non vi dedica nessuna attenzione.
Le conseguenze saranno evidenti più tardi: oggi, i lavoratori cambiano lavoro in media ogni 4 anni (Forbes) e i Millennials sono particolarmente predisposti a questo job hopping.
Recruitment online: la persona al centro di tutto
Cercare candidati attraverso il web e i social è ormai la norma e le piattaforme l’hanno capito: persino Tik Tok sta testando una funzione di job recruitment.
Non tutte le aziende, però, fanno recruitment online allo stesso modo. Molte adottano il modello post & pray: si scrive un annuncio dove è spiegato alla bell’e meglio il profilo richiesto e lo si colloca su vari portali. I più motivati comprano un po’ di visibilità.
Tutto questo non è più sufficiente.
Il reclutamento è un processo incentrato sulle persone, che devono essere valorizzate. Comunicare sui social, o altre piattaforme, copia-incollando i contenuti, è un errore da principianti. Così come essere ovunque, “spammando” l’annuncio senza una strategia.
Ogni luogo virtuale ha la sua comunità di riferimento e, quindi, un suo linguaggio e le sue dinamiche. Non rispettare tutto ciò può far sembrare l’azienda poco seria o poco attraente.
A ogni modo, i social sono degli asset. Possiamo usarli per trovare dei professionisti interessanti, da contattare direttamente, oppure per ampliare il bouquet di informazioni sul candidato che stiamo analizzando.
Chi è e cosa fa un Recruiter?
Nessun software può stabilire se un individuo è adatto o meno a un certo lavoro. Per questo, le attività di recruiting sono tante e complesse. Ma chi le presiede?
Esiste, all’interno delle HR, una figura specializzata nella ricerca e selezione del personale. È il reclutatore (recruiter), il responsabile dell’identificazione dei futuri dipendenti.
I compiti dei recuiter sono tanti. Per esempio, un recruiter deve cercare attivamente candidati idonei, condurre le interviste, gestire la fase di onboarding, nonché negoziare le condizioni contrattuali. Un po’ di tutto, insomma.
Secondo Workable, un recruiter di successo sa:
- Costruire relazioni – Per forza di cose, i reclutatori si trovano più spesso a rifiutare che ad assumere. Il buon recruiter dà sempre un feedback al candidato e mantiene i rapporti. Perché, nella vita, non si sa mai.
- Lavorare con i manager – I reclutatori trovano e assumono le risorse, che però lavoreranno in altri team. È importante quindi che sia in grado di capire cosa cercano i manager.
- Non avere pregiudizi – I reclutatori efficaci sanno che è meglio non giudicare un libro dalla copertina. Un buon recruiter è una persona empatica, che va oltre il Curriculum o l’aspetto fisico. Per essere in grado di mettere la persona giusta al posto giusto, il recruiter non deve smettere mai di studiare.
- Essere consapevole – Deve essere sempre aggiornato sulle tendenze del settore in cui opera l’azienda, nonché conoscere il target dei professionisti. Deve parlare la loro lingua e sapere dove trovarli, anche sui social media. Infine, deve essere esperto delle varie strategie di recruiting, comprese le tecnologie e metodologie più all’avanguardia.
Un buon recruiter non guarda (solo) al titolo di studio.
In un candidato si cercano propensione al cambiamento e competenze trasversali.
3 buoni motivi per fare il recruiting in outsourcing
Il reclutamento è una attività fondamentale per le imprese. Senza le giuste competenze e persone, l’azienda non potrà crescere. La gestione di questo processo deve quindi essere affidata a esperti affidabili.
Trovare e assumere un recruiter di ottimo livello può essere molto complicato. Per questo, spesso l’attività di recruiting viene affidata ad agenzie di ricerca e selezione del personale.
Le società di recruiting garantiscono un processo più efficace ed efficiente.
Il recruiter esterno riesce a vedere più chiaramente gli obiettivi da perseguire, ha una notevole esperienza nel campo e sa come velocizzare le fasi senza perdere di qualità. Inoltre, il rapporto con i clienti è tutto e, per questo, le agenzie esterne danno così tanta importanza all’analisi ex-post del recruitment.
L’utilizzo di KPI (Key Performance Indicator) misurabili consente all’azienda di controllare e apprezzare il loro lavoro.
Nel frattempo, le risorse interne rimangono concentrate sulle sfide della gestione d’impresa.
Una Factory innovativa per gli Specialisti dell’Innovazione
Durante il workshop, sono condivise competenze verticali nell’innovazione e nella Digital Transformation.
Dal 2020, Seedble propone Innovators Factory. Si tratta di un canale di recruiting basato su un processo di scounting e assessment.
Due volte l’anno si selezionano 10 giovani talenti dopo una ricerca ad ampio raggio che parte dalle università italiane e poi si allarga a startup e a profili junior.
Questa Extended Reach consente di intercettare i profili più promettenti in ambito innovazione. Test e colloquio 1-to-1 permettono, invece, di identificare quelli più in linea con le necessità delle aziende partner di Seedble, che hanno un “diritto di prelazione” sui partecipanti.
In ogni caso, chi viene selezionato parteciperà a un workshop interdisciplinare focalizzato sui processi di innovazione: sei giorni di approfondimento sui trend, sulle metodologie e sugli strumenti che innescano il cambiamento in azienda. Ossia, tutti i segreti del mestiere dell’Innovation Specialist.
L’Innovation Specialist è un professionista junior del campo dell’innovazione. Infatti, l’IS deve saper:
Fare scouting di soluzioni innovative e di startup interessanti;
Promuovere la formazione sul tema dell’innovazione;
Stimolare la creatività dei team promuovendo (e gestendo), per esempio, challenge interne, hackathon, progetti di Open Innovation e laboratori di idee;
Facilitare la ridefinizione dei processi aziendali in chiave innovativa.
La sua figura è trasversale rispetto all’organigramma aziendale. Il suo ruolo è di supporto all’Innovation Manager, figura di recente istituzione, ma già molto importante.
L’IM accompagna le aziende nel percorso di trasformazione digitale dirigendo l’introduzione di tecnologie emergenti nel workflow dell’impresa, creando strutture e processi, ma anche cercando e sviluppando idee e sistemi innovativi.
In pratica, è una via di mezzo tra manager puro e project manager. Affinché si verifichi un impatto positivo dell’innovazione, infatti, sono necessari concomitanti cambiamenti organizzativi. Proprio questi, l’Innovation Manager è chiamato a gestire.
Nel panorama dell’evoluzione tecnologica e della digital transformation, la sua figura è fondamentale. Non a caso, il Piano Industria 4.0 prevede invesimenti tramite l’erogazione del Voucher Innovation Manager, che è stato un grande successo fin dal suo lancio con un boom di richieste.
La misura è pensata per le piccole e medie imprese (PMI), ossia le aziende più numerose all’interno del panorama industriale italiano, che sono proprio quelle con più difficoltà a innovare, ma non per questo meno desiderose di farlo.
Recruiting: un vantaggio competitivo per l’innovazione