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La Platform Economy in Italia

La Platform Economy in Italia deve ancora svilupparsi mentre USA e Cina spadroneggiano. Cosa fare per diminuire il gap?

Platform Economy in Italia

La Platform Economy in Italia è ancora agli inizi se paragonata a come si è sviluppata a livello internazionale, dove il mercato è dominato in modo schiacciante dagli Stati Uniti e dalla Cina. Questo è un dato di fatto e non è possibile nascondere la testa sotto la sabbia. 

I numeri parlano chiaro, come riportato dall’indagine di KPMG “Unlocking the Value of the Platform Economy”: il 69% del valore del mercato, miliardi su miliardi di dollari, è nelle mani di sette super piattaforme americane (Amazon, Google, Meta, Microsoft, Apple) e cinesi (Alibaba e Tencent).

Quale ruolo ricopre il mercato europeo? La ricerca evidenzia un ulteriore dato significativo in tal senso: se si considerano solamente le piattaforme Unicorn, il dominio di USA e Cina, che costituiscono rispettivamente il 46% e il 35% del valore, è in parte contrastato dall’Europa, che ne rappresenta invece il 18%. 

Mettendo in proporzione questi numeri, ci si accorge facilmente che:

  • Si sta parlando di circa un quinto del mercato globale contro i restanti quattro quinti;
  • Si confrontano due nazioni e macro-mercati distinti con un intero blocco economico continentale, caratterizzato però da un’estrema diversificazione di micro-mercati interni.

Perché l’Europa non riesce a smarcarsi dai suoi competitor? Come si comporta la nostra Italia? In questo articolo, proveremo a individuare le risposte a queste domande, ponendo particolare attenzione nell’analisi della situazione italiana.

Il mercato europeo della Platform Economy

Nella Platform Economy, il mercato europeo occupa il ruolo del terzo player di settore nel confronto con i colossi a stelle e strisce e dell’estremo Oriente, vantando importanti successi (come la francese BlaBlaCar o l’olandese Booking), ma presentando anche notevoli lacune dettate dalla coesistenza di micro-mercati estremamenti differenti gli uni dagli altri.

Alcune informazioni e dati interessanti che ci aiutano a inquadrare in numeri l’economia delle piattaforme in Europa sono stati pubblicati nel report “An Overview of European Platforms”, redatto dall’ente di ricerca europeo Joint Research Centre.

Platform Economy in Italia e resto d'Europa
La mappa cromatica evidenzia (in blu scuro) il maggiore sviluppo della Platform Economy nelle economie dell’Europa occidentale

In primo luogo, si osserva che la Platform Economy si è sviluppata prevalentemente nelle grandi economie europee con forte rilevanza e attrattiva internazionale: Regno Unito e Francia in testa, seguite da Spagna, Paesi Bassi e Germania. Questo modello di business è invece meno diffuso nei mercati meno globalizzati, come quelli dell’Europa centro-orientale o settentrionale.

E l’Italia? Come spesso accade, noi italiani rappresentiamo la classica via di mezzo. Il Bel Paese possiede certamente tutte le carte in regola per essere un terreno fertile utile alla diffusione delle piattaforme; un po’ meno, però, al loro sviluppo interno.

Si tratta, in realtà, di un problema ampiamente diffuso nel mercato europeo. Infatti, la ricerca mette in luce che il 15% del campione è composto da aziende extra-comunitarie e che il 62% delle piattaforme non europee attive in Europa è di origine americana.

Anche sotto questo aspetto si può verificare una netta differenziazione tra le micro-economie europee (NDR: i seguenti dati sono arrotondati per eccesso e difetto). Nello specifico:

  • Le grandi economie non solo attraggono maggiori investimenti di aziende estere, ma sono un importante laboratorio di sviluppo per piattaforme autoctone (Francia 45% circa, Regno Unito e Paesi Bassi 40% circa, Germania 35% circa, Spagna 30% circa);
  • Le economie più piccole e resistenti rispetto alle influenze internazionali presentano il maggior numero di piattaforme autoctone, seppur di piccole dimensioni e di interesse locale (es. Bulgaria e Slovacchia 60% circa, Repubblica Ceca 50% circa);
  • Il mercato italiano è in gran parte monopolizzato dalle piattaforme straniere e registra solo il 15% di realtà autoctone, alle spalle anche di mercati meno interessanti per lo sviluppo della Platform Economy come quello svedese (40%) o polacco (30%).
Platform ecomomy in Europa: confronto fra piattaforme autoctone e straniere

Un’ulteriore analisi interessante riguarda le tipologie di piattaforme diffuse in Europa a seconda della regione, distinguendo in maniera semplicistica tra servizi di trasporto (sia di persone sia di beni di consumo) e servizi professionali (sia offline sia online). Si osserva che:

  • In alcune delle economie più all’avanguardia nel settore, come Regno Unito e Paesi Bassi, le piattaforme di servizi professionali rappresentano circa il 70% del mercato;
  • Nelle economie più piccole e meno influenti a livello internazionale sono diffuse soprattutto le piattaforme che offrono servizi di trasporto e delivery, ad esempio Romania, Slovacchia e Lituania rispettivamente per circa il 60%, 70% e 80%;
  • L’Italia, questa volta al pari con Francia, Germania e Spagna, si colloca in un giusto equilibrio tra le due tipologie prese in analisi (circa il 40% per il trasporto e circa il 60% per i servizi professionali).
platform economy europa: Piattaforme di trasporto e di servizi

Perché l’Europa non riesce a emergere?

Ci sono diversi motivi per i quali l’Europa si trova in una posizione di svantaggio nella competizione con le due macro-economie mondiali, riassumibili in tre punti fondamentali.

1. Dimensioni e caratteristiche dei mercati interni

Per quanto riguarda le dimensioni e caratteristiche dei mercati, non c’è da stupirsi nell’osservare che siano proprio le più grandi economie a guidare questo settore nel nostro continente. I fattori chiave sono essenzialmente questi:

  • Maggiore ampiezza geografica, dunque maggiore popolazione e maggior spessore dell’economia, sia interna sia esterna;
  • Maggior rilevanza internazionale nell’attirare investimenti di piattaforme estere, dettata dalle potenzialità di sviluppo dei rispettivi mercati e dalla condivisione di lingue e culture comuni (es. il mercato britannico trae un importante vantaggio competitivo dall’uso dell’inglese come lingua franca e dalla vicinanza culturale a tutto il mondo anglofono).

Analizzando questi due fattori e confrontando le micro-realtà europee rispetto a Stati Uniti e Cina, macro-realtà molto più coese e sinergiche nei loro mercati interni, ci si rende subito conto che da un lato emergono solo alcune economie piuttosto che altre (es. il Regno Unito rispetto ai paesi dell’Europa centro-orientale), dall’altro crescono il divario e la diversificazione dei micro-mercati interni al blocco.

2. Cultura economica: Europa e Italia

Anche la cultura economica è un tassello molto importante nel determinare il successo, o meno, di nuovi modelli economici come la Platform Economy. 

Non è un caso che i mercati più sviluppati e aperti alle nuove influenze coincidono con nazioni, come Regno Unito, Paesi Bassi e Spagna, che vantano una tradizione storica di commercio e scambio internazionale.

Si tratta di un fattore non condiviso in maniera omogenea da tutti gli Stati europei e, nello specifico, neanche dall’Italia. L’economia italiana unitaria, infatti, è relativamente molto giovane e si è sviluppata con decisione solamente a partire dal secondo dopoguerra, grazie all’esportazione nel mondo di prodotti di qualità eccelsa del mondo artigianale, manifatturiero e alimentare.

Si può parlare di conservatorismo rispetto all’innovazione digitale? Forse è il nostro tallone d’Achille. Ma se è vero che attualmente inseguiamo le altre economie europee, è vero anche che l’Italia dispone di grande potenziale in attesa solo di essere sbloccato da alcune catene vincolanti: tra tutte, la burocrazia aggressiva e la mentalità imprenditoriale “old school”.

3. Politica economica: Europa e Italia

Ultimo fattore, ma non per questo meno rilevante, è la politica economica. Di fatto è un elemento assolutamente determinante, perché fare impresa – e dunque, ad esempio lanciare, gestire e sviluppare una piattaforma – significa soprattutto saper ottimizzare i costi rispetto ai ricavi agendo con lungimiranza e intuizione nel lungo periodo.

Anche in questo caso, purtroppo, il mercato europeo si dimostra estremamente frammentato sulla base di due punti chiave:

  • Eccessiva differenza interna nella tassazione dei profitti, con particolare riferimento ad alcuni Stati che applicano aliquote alla stregua di veri e propri paradisi fiscali (es. Paesi Bassi e Irlanda) come analizzato dall’Osservatorio CPI dell’Università Cattolica;
  • Presenza di valute diverse dall’Euro che rendono disomogeneo il cambio internazionale con le principali valute rivali (dollaro americano e yuan cinese).

A questo punto, la domanda sorge spontanea: quanto costa avviare un nuovo business (anche su piattaforma) in Italia? 

Un’indagine pubblicata nel 2021 da Unimpresa ha stimato i costi minimi necessari per lanciare una startup nei paesi europei, con un risultato parecchio deludente e preoccupante per l’Italia: record negativo di paese più caro con più di 4.000 euro di costo minimo; il doppio rispetto ai Paesi Bassi, sette volte in più rispetto alla Spagna, dieci volte in più rispetto alla Germania e quindici volte in più rispetto alla Francia.

platform economy in italia: Costi minimi necessari per lanciare una startup e tassazione - confronto con resto d'europa
Tabella di comparazione tra costi amministrativi minimi per il lancio di una startup e aliquote minime di tassazione. Tra tutte, spicca la storica aliquota dello 0,005% applicata nel 2014 dall’Irlanda nei confronti di Apple

Il futuro della Platform Economy in Italia

Appare evidente che l’Italia, dal punto di vista sia culturale sia pragmatico, non potrà mai diventare una nuova Silicon Valley – e, forse, neanche l’Europa come macro-mercato. Tuttavia, nonostante il notevole gap nel settore con le altre economie, il futuro della Platform Economy nello stivale passerà attraverso due sfide fondamentali. Vediamole nel dettaglio.

Piattaforme e Gig Work

La prima sfida riguarda la regolamentazione del lavoro su piattaforma. Dal report “Lavoro Virtuale nel Mondo Reale” pubblicato dall’INAPP, in Italia ci sono circa 570.000 Gig Workers, di cui:

  • il 55% si occupa di servizi di trasporto (50% delivery, 5% autisti privati on-demand);
  • il 35% si occupa di servizi professionali online, contro il 9% che offre servizi offline;
  • il 72% lavora su piattaforma come attività continuativa (48% come principale occupazione);
  • il 31% non ha alcun contratto di lavoro e solo il 12% è riconosciuto come dipendente.

Questi ultimi dati invitano a riflettere, interrogandosi sull’etica dell’organizzazione del lavoro su piattaforma in Italia

A tal proposito, dal punto di vista giuridico è opportuno ricordare l’esistenza di fonti che indirizzano l’esecutivo verso una formalizzazione sempre più tutelata di queste professioni: una legge, la n.128/2019, e alcune recenti sentenze a Palermo, Torino e Milano.

Piattaforme e imprenditorialità

La seconda sfida, invece, è forse anche quella più complessa: l’adozione di una nuova mentalità imprenditoriale e progettuale relativamente all’evoluzione di questo modello di business.

Uno studio di Assolombarda opera una distinzione necessaria tra le super piattaforme, come i colossi internazionali che dominano il mercato italiano (ed europeo), e le due tipologie di imprese all’italiana che potrebbero trarre vantaggio dalla Platform Economy:

  • Platform-enabled activities, cioè aziende native digitali che presentano caratteristiche tali da entrare a far parte con profitto di un ecosistema di piattaforme;
  • Plat-firms, ovvero aziende tradizionali che progettano l’inserimento in un ecosistema o la loro stessa trasformazione in piattaforma.

Se da un lato un problema significativo può riguardare le fonti di finanziamento di un progetto imprenditoriale, dall’altro concretizzare un cambio di rotta così significativo nel proprio business comporta la necessità di modificare la concezione di cos’è e come si fa impresa.

Un fattore chiave è lo sviluppo dell’open innovation e la diffusione di una cultura aziendale collaborativa, aperta alle influenze esterne, attenta alla sostenibilità economica e tecnologica degli investimenti, dotata di senso etico e guidata strategicamente dal mercato. 

È molto importante, infatti, conoscere il proprio modello di business e verificarne la “piattaformizzazione”, l’applicabilità efficace su piattaforma. Basta porsi tre semplici domande:

  1. Il mio prodotto e/o servizio può essere venduto con successo su piattaforma?
  2. I miei clienti in target e/o potenziali nuovi clienti sono utenti attivi delle piattaforme?
  3. Posso generare valore economico, direttamente o indirettamente, agendo su piattaforma?

Se la risposta è al cento per cento positiva, allora le premesse per iniziare un progetto di innovazione sono solide e la Platform Economy può essere una soluzione per le imprese italiane per cavalcare brillantemente l’onda della trasformazione digitale.

La Platform Economy in Italia

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