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Il senso del lavoro: la ricerca del talento.

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Il senso del lavoro: la ricerca del talento - Spremute Digitali

Nella mia ricerca sul “senso del lavoro” proseguo il confronto con Silvia Bona iniziato prima delle festività.

La ricerca del talento è parte del grande progetto della professionalità

Q: Ciao Silvia, la scorsa volta ci siamo lasciate con l’intento di approfondire il passaggio tra persone e aziende. Pensi che le aziende siano capaci di riconoscere i talenti al loro interno? O che sia più semplice, cercare fuori le competenze mancanti?
A. Di base non credo si possa dire che alle aziende manchi la capacità di riconoscere talenti al loro interno. Il punto è cosa riconoscono, quando riconosco i talenti. Forse manca alle organizzazioni, come alle persone, un modello per pensare il talento. E manca semplicemente perché in via di costruzione. In due sensi.
Intendere il talento del singolo in modo sistemico, come appunto, insieme di tutte le sue risorse, con tutta la criticità di alcuni presupposti. Trovo molto interessante a questo proposito modelli come quello di Luca Solari della Bocconi, che parla di abilitazione a tutto tondo delle esperienze delle persone in chiave professionale. Con un nuovo modo di pensare il talento, implica un nuovo modo di pensare il riconoscimento dello stesso, che diventa sinonimo del metterlo in azione.
Ma connesso a questo si aprono altri temi: quello del valore condiviso, anzitutto, quello della fiducia, quello dell’ingegnosità collettiva.
E questo è il secondo livello. Come scrive Previ nel suo Manuale di Incompetenza Manageriale, bisogna superare la logica del talento individuale.
Insomma, persone ed organizzazioni si trovano ad affrontare la stessa sfida rispetto al lavoro: trovarsi nel bel mezzo di un cambio di paradigma.


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La crisi, si è detto, non è solo economica, ma culturale. Non a caso è aperto su tutti i fronti il dibattito sul futuro del lavoro.
Credo sia importante in questa fase, dare spazio al pensiero: chi si occupa di lavoro oggi ha il dovere di non limitarsi a generare buone pratiche. Ma avviare su di esse un processo riflessivo, in una circolarità continua tra pensiero ed azione, che aiuti a generare i nuovi modelli interpretativi di cui il lavoro necessita.
Le organizzazioni che cercano e le persone che offrono il lavoro, credo abbiano in comune una necessità di nuovi modelli di pensiero che orientino il loro agire; strumenti per stare nella complessità ed imparare a farne un’opportunità, anziché una minaccia.
E il primo strumento è proprio l’attitudine ad interessarsene, nel senso di approcciare le situazioni come qualcosa che ha a che fare con sé. Il nostro lavoro in PianoC nasce così, immergendoci nella complessità del tema lavoro e della vita delle persone, insieme.
Q. Mi incuriosisce questo nuovo approccio alla “ricollocazione”, mi racconti in cosa consiste il vostro metodo e da quali riflessioni è nato?
A. Il nostro lavoro parte da 3 presupposti:

    1. Spesso ci si approccia al tema della propria professionalità, pensando a quello che manca. Invece si deve spostare il focus a quello che c’è. Rendere visibili a sé le proprie risorse personali e professionali, interne ed esterne e sperimentarle attivamente, amplificando punti di forza e cogliendo le opportunità. È la chiave dell’agire – che come diceva Hanna Arendt – è un processo che, inserito nella trama delle relazioni umane, è in grado di generare qualcosa di nuovo.
    2. Il sistema delle nostre risorse è il nostro talento. Ognuno è un talento; non perché possiede capacità o competenze straordinarie. Ma perché è una costellazione unica ed irripetibile di risorse, costituite da ciò che sappiamo (conoscenze, competenze tecnico-professionali), ciò che sappiamo fare (abilità, capacità, competenze trasversali), ciò che siamo (atteggiamenti, attitudini, tratti, stile) e ciò che amiamo (passioni, interessi, valori).
    3. Attraverso questo talento si è in grado di rispondere ad una domanda del mercato, o meglio, del mondo. Mettendo in azione le proprie risorse, ciascuno può far accadere qualcosa in modo unico ed originale, che produca un effetto nel mondo sul quale desidera agire, come risposta a una sua domanda. La professionalità, perciò, è la risposta personale ad una domanda del mondo/mercato.

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Ma proporre una risposta ad una domanda è di fatto, progettare. La professionalità allora è un progetto. Ed è per questo che il metodo per approcciarla, può efficacemente essere quello dei designer.
Oggi portiamo avanti diversi progetti, tutti accomunati da tre idee chiave:

La prima, è l’idea dell’Empowerment

Empowerment inteso come insieme di consapevolezza e messa in azione delle proprie risorse.
Per rendere visibile il proprio talento, anzitutto è necessario esserne consapevole. E per diventarne consapevole è necessario vederlo in azione.
I primi progetti, partendo dal presupposto che “è più facile trovare lavoro se già lavori“, hanno previsto delle esperienze di quasi lavoro. Un gruppo di donne riceve da un’azienda partner un obiettivo, e per tre mesi è ingaggiato nella sua realizzazione.
In un contesto di fiducia reciproca (garantita da un’attenta selezione dei partecipanti), di appartenenza, di ingaggio, le persone liberano le proprie energie e attivano il proprio talento. Attraverso semplici strumenti è possibile renderle consapevoli, facilitarle nella rappresentazione e nella stabilizzazione della propria mappa.
Progressivamente l’obiettivo è stato trasformato da compito esterno a progettazione della propria professionalità, o costruzione del business model della propria potenziale impresa; l’effetto è il medesimo.
Parallelamente, sempre attraverso semplici strumenti e azioni formativo-consulenziali, lo stimolo nella ricerca su sé, e insieme l’esplorazione dei propri campi di interesse, concorrono alla raccolta di informazioni, che hanno una forte valenza di apertura di visione e di possibilità.

La seconda idea è la potenza del gruppo

La funzione primaria che è stata attribuita al gruppo fin dai primi progetti, è quella dell’uscita dalla solitudine e dall’isolamento nel quale, spesso, chi vive una fase di transizione, si trova.
Ma la fase di riflessione e modellizzazione, ha messo in evidenza che il gruppo è ben più che uno strumento di networking e di sostengo emotivo. La potenza del gruppo è anzitutto nel suo potenziale creativo.
Questo significa anche che, un gruppo è tanto più efficace quanto più ha in sé diversità: è per questo che progressivamente abbiamo avviato progetti con gruppi sempre più eterogenei per target.

La terza idea è lo storytelling

Chi è coinvolto nei progetti di PianoC, è invitato a scrivere o realizzare video da diffondere, nei quali raccontare se stessi, l’evoluzione del proprio percorso, il proprio progetto.
Raccontarsi e raccontare diventa la fase riflessiva dell’agire, trasformata in esperienza. La costruzione di un filo rosso che definisce l’identità professionale e rappresenta il senso del progetto.
Ogni progetto è un sistema vivo e complesso che, come tale, non può essere ridotto ad una descrizione analitica, incapace di restituirne il significato complessivo.
La narrazione è invece in grado di fare emergere la complessità delle connessioni e le relazioni, tra le diverse fasi del processo, e tra i diversi elementi che costituiscono il sistema.


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Conclusione

Nel mio lavoro in PianoC, ho identificato nella cultura del progetto una sorta di piattaforma che può connettere queste tre idee in un metodo.
Ne è nato work design, metodo proprietario, che abbiamo diversamente declinato in progetti e contesti, individuali e di gruppo, spesso in co-progettazione con clienti e finanziatori.
Per fare qualche esempio, Talenti Inauditi, in collaborazione con Cariplo Factory: un percorso di nove settimane dedicato a persone disoccupate di medi ed alti profili e finalizzato alla riprogettazione professionale.
Co-care, un progetto svolto in collaborazione con MilanoSeiL’altro, programma di welfare di comunità, finanziato da Fondazione Cariplo, nel quale abbiamo collaborato, occupandoci di co-progettare con 10 donne le nuove professioni della cura.
E ancora “Un’idea in testa”, in collaborazione con Henkel Testanera che ha accompagnato cinque donne a passare da un’idea, ad un progetto di impresa o di auto imprenditorialità.
“StartHer” un pre incubatore di impresa che sta accompagnando sette donne alla prototipazione della loro idea di impresa. E infine “@work”, in collaborazione con OpenDot e Spazio Aperto Servizi, che intende progettare con donne migranti, forme di digitalizzazione delle professioni tradizionali.
 
Io, apprendista permanente, imparo moltissimo ad ogni sessione. Non solo sul metodo, ma anche su me stessa e sulla meravigliosa complessità delle persone. E di quel mondo, che ciascuno sta cercando di trasformare, anche solo in un piccolo aspetto, ma che ha il potere di avvicinarlo ai propri sogni.
 
Grazie per questa intervista Silvia, mi hai fornito tanto materiale prezioso per proseguire le mie riflessioni sul “senso del lavoro”, in bocca al lupo per tutti questi progetti e a presto!
Ci si vede al prossimo blog post 😉

Il senso del lavoro: la ricerca del talento.

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