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Be Human. Be Digital. Be Human Digital. Come essere umani, nel mondo digitale.

umanesimo digitale

Si va verso un umanesimo digitale: lo scambio di saperi è indispensabile per anticipare lo sviluppo di nuove competenze? Due punti di vista a confronto.

Nel mio precedente articolo mi sono soffermata sul tema del continuous learning e su quanto sia indispensabile oggi lo scambio di saperi diversi: questo permette di valorizzare le differenze generazionali e di percorsi e di sviluppare iniziative che mettano in circolo buone pratiche, contenuti, esperienze innovative. Non solo orientate alla formazione di ruolo, ma anche in grado di anticipare lo sviluppo di nuove competenze e accompagnarne l’evoluzione.
Tutto questo ha un impatto anche sul mondo del lavoro: sono richiesti nuovi approcci e un nuovo mindset.
E visto che le aziende sono costituite da Persone spesso diverse tra loro proprio per competenze e esperienze, ho voluto mettere a confronto due punti di vista apparentemente estremi: quello di Paolo Meloni – Laureato in filosofia – Responsabile Progetti Formativi @ELIS e quello di Daniele Di Bartolomei – Ingegnere Informatico – Middleware Consultant @Red Hat, con cui ho provato a fare un viaggio partendo dal mondo della scuola, arrivando nelle aziende e con una prospettiva di apertura al mondo.

Indice
Dal mondo della scuola, a quello delle aziende, verso una prospettiva open

Dal mondo della scuola, a quello delle aziende, verso una prospettiva open

Q. Abbiamo tutti molto a cuore il tema dell’educazione: per lavoro, per passione, per professione, per genitorialità. Allora vi chiedo: se foste Ministro dell’Istruzione, da cosa partireste per rinnovare la scuola? 

Paolo: dall’importanza che rivestono i maestri e i professori, dalla loro formazione e vocazione. Quella dell’insegnante dovrebbe diventare una delle professioni più valorizzate e anche riconosciute a livello economico del Paese.
Perché, se è vero che l’istruzione e la formazione sono determinanti per formare le persone del futuro, allora è altrettanto vero che chi se ne occupa, venga messo nelle migliori condizioni per svolgere il proprio lavoro/vocazione.
Dalla cura dei ragazzi, stimolandoli continuamente e facendoli crescere, dando la possibilità a ciascuno di sviluppare i propri talenti secondo le proprie potenzialità e possibilità; dall’aggiornamento dei programmi alla luce di un mondo globale, che dovrebbe essere multiculturale e tollerante, valorizzando le peculiarità locali; all’attenzione alla cura della “Memoria” su cui si basa l’oggi e il futuro e di cui non ci si può scordare.
Daniele: introdurrei, in modo diverso per ogni fase dell’iter scolastico, un approccio differente all’apprendimento, mirato a stimolare anche lo spirito d’iniziativa personale e le cosiddette soft skill.
Oggi la scuola è un canale di apprendimento percepito come un flusso a senso unico di informazioni e competenze da acquisire per andare poi, nel mondo del lavoro, a svolgere una mansione assegnata.
Quello che manca, in particolare nelle scuole superiori e nell’Università stessa, è una sana iniezione di cultura dell’imprenditorialità che liberi i talenti potenziali, spesso scoraggiati dalla complessità del “fare azienda”, nel dare vita a iniziative di business che porterebbero benefici, non solo economici, ma anche in termini di maturità sociale.
Questo non vuol dire, naturalmente, che tutti gli studenti debbano diventare imprenditori: la cultura dell’iniziativa personale nel lavoro è uno strumento per innescare dal semplice, ma fondamentale, spirito proattivo in un dipendente ,fino all’impresa di business che crea valore: ognuno troverà poi, da sé, la propria strada.


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Q. Se doveste progettare un percorso di studi capace di portare gli studenti ad affrontare le sfide dell’odierna società complessa globale, come lo articolereste?

Paolo: proporrei un giusto mix tra competenze umane e tecniche. Da un lato aiutare i ragazzi a stare al mondo e dall’altro li aiuterei a capire come starci. Un percorso che li metta nelle condizioni di affrontare il futuro con umanità a 360 gradi, dandogli gli strumenti per migliorare il mondo che vivranno.
Daniele: Sicuramente baserei il percorso su un mix, più equilibrato, di apprendimento teorico e applicazione pratica.
La società globalizzata di oggi, e probabilmente ancora di più quella di domani, viaggia a ritmi ben più sostenuti rispetto al passato ed è questa stessa velocità che viene richiesta nel mondo del lavoro.
Non parlo di ritmi forsennati da catena di montaggio, quanto piuttosto di rapidità nell’adattare competenze teoriche a contesti pratici reali, elasticità nel calare efficacemente concetti su casi concreti.
La mente umana, in fin dei conti, si è evoluta e plasmata per un apprendimento realizzato attraverso l’esperienza, come avviene fin da bambini: anticipare il binomio teoria-pratica permetterebbe, a chi si prepara per il mondo del lavoro, di essere pronto e produttivo quasi da subito.

Q. Dal World Economic Forum arriva un chiaro invito nei confronti di un’innovazione responsabile: “Le nuove tecnologie siano messe al servizio della società”. Eppure, una delle buzz word più comune oggi è “digital transformation”: le nuove tecnologie possono davvero aiutare le aziende e la società tutta ad evolvere?

Paolo: se correttamente indirizzate e utilizzate, certamente le nuove tecnologie possono aiutare la società e le aziende a migliorarsi.
Ogni epoca storica ha avuto le proprie innovazioni che hanno radicalmente cambiato le società in cui si sono sviluppate e che quando sono state utilizzate correttamente, hanno portato un cambiamento e un miglioramento delle condizioni preesistenti. Bisogna avere fiducia nei cambiamenti e nelle innovazioni e indirizzarle correttamente affinché migliorino e facciano progredire la società.
Daniele: sì, e sono d’accordo nell’invito ad un impiego responsabile delle tecnologie, argomento che, secondo me, riguarda sia le aziende che la società.
Per entrambe l’introduzione di tecnologia andrebbe accompagnata da un cambiamento che diffonda una cultura dell’informazione a 360 gradi, che oggi manca, ma che è necessaria a sviluppare una competenza e una consapevolezza su temi come la privacy, la sicurezza, l’identità, l’etica della responsabilità applicata al mondo “virtuale”.
La mancanza di questa sensibilità genera, prima o poi, effetti controproducenti per la società e, di conseguenza per l’azienda coinvolta.
La trasformazione digitale riguarda quindi tutto il sistema, comprese le persone e, per questo motivo, credo che anche la cultura dell’informazione andrebbe insegnata a scuola, al pari di altre materie.

Q. In tutte le organizzazioni si parla di cambiamento. Per affrontarlo, è necessario creare un nuovo approccio al lavoro. Ma cosa significa esattamente?

Paolo: di sicuro non penso di poter dire cosa significhi esattamente creare un nuovo approccio al lavoro, e diffido anche da chi ha la presunzione di poterlo affermare con certezza.
Secondo il mio punto di vista la questione è più semplice di quello che sembra. Infatti, di fronte a un cambiamento bisognerebbe semplicemente creare le condizioni ottimali per fare in modo che possa realizzarsi nel miglior modo possibile.
Non è un qualcosa che si realizza da solo, ma richiede grande impegno, fatica e attenzione da parte di chi ne è coinvolto, in maniera attiva e propositiva.
Daniele: ripensare il lavoro con nuove regole, nuovi paradigmi, nuovi obiettivi misurabili.
L’organizzazione attuale di tantissime aziende è ancora figlia di un tempo che non conosceva Internet e tutti gli strumenti tecnologici da essa derivati; questi strumenti aprono le strade della comunicazione a distanza, dell’immediatezza del risultato, dell’apprendimento continuo fino ad arrivare, chiaramente, all’intelligenza artificiale.
Se da un lato, quindi, questo cambiamento potrebbe liberarci da vincoli ormai anacronistici come l’orario e il luogo di lavoro, favorendo stili di vita nuovi e forse più appaganti, dall’altro ci impone un miglioramento continuo attraverso uno studio costante per essere sempre allineati con l’elasticità e la metamorfosi progressiva del nostro lavoro.
Non esiste più il modello dell’attività di lavoro ripetuta identicamente fino al giorno della pensione. Addirittura, parlerei di proactive learning, perché bisogna ormai essere pronti a cavalcare le mutazioni drastiche del proprio lavoro e della società attraverso competenze che, probabilmente, oggi riteniamo futili se non inutili nella nostra professione. Ma che domani potrebbero rivelarsi chiave: come si dice, impara l’arte e mettila da parte.

Q. Come adattarsi al cambiamento? Come trasferire il cambio mindset necessario per affrontare le sfide a cui siamo sottoposti quotidianamente?

Paolo: serve tanto impegno e partecipazione, parlare con le persone e provare a mettere da parte le proprie convinzioni e abitudini. Mettersi in gioco e provare a porsi in una condizione di possibilità rispetto a qualcosa di sconosciuto e diverso.
Provare a dare un proprio contributo attivo e propositivo mettendo a disposizione le proprie competenze, esperienze e volontà di cambiare e favorire il cambiamento.
Daniele: essendo il cambiamento ormai inevitabile, l’approccio giusto è quello di accoglierlo e questo sarà tanto più indolore quanto più avremo continuato a formarci, giorno dopo giorno, tenendo gli occhi bene aperti sui segnali che il mondo, o semplicemente l’azienda o settore nel quale lavoriamo, ci manda.
Anche studiare qualcosa che oggi sembra inutile o, quantomeno, troppo avanti coi tempi, potrebbe rivelarsi decisivo nel giro di qualche anno.
Dovremmo, in generale, imparare a vedere il nostro lavoro e la nostra formazione in termini meno statici e più dinamici, facendoci guidare da una sana curiosità.

Q. Fra le 10 competenze trasversali più richieste nel lavoro del futuro indicate dal WEF troviamo: il problem solving, il pensiero critico, la creatività, gestione delle persone, coordinamento con gli altri, intelligenza emotiva, ragionamento e presa delle decisioni, orientamento ai servizi, negoziazione e flessibilità cognitiva. Quale secondo voi la più importante e in grado di sostenere tutte le altre? 

Paolo: secondo il mio personale punto di vista la competenza che potrebbe, nella sua messa in atto, racchiudere e ricomprendere anche le altre è la capacità di risolvere problemi complessi.
Infatti, nella sua attuazione potrebbe richiedere pensiero critico, creatività, gestione delle persone, coordinamento con gli altri, intelligenza emotiva, capacità di prendere decisioni.
Daniele: credo che la flessibilità cognitiva, nel mondo di oggi, sia, forse, la competenza chiave, perché favorisce proprio l’elasticità mentale necessaria per gestire, nel modo giusto, ogni situazione tenendo conto del contesto specifico: la capacità adattiva che ne deriva è fondamentale per essere resilienti in un mondo in continuo e rapido cambiamento.
Volendo scegliere anche un’altra competenza, direi il pensiero critico perché, se è vero che la flessibilità cognitiva è il “mezzo”, pensare in modo critico è decisamente il carburante che mette in moto l’innovazione e il cambiamento.

Q. Il cambiamento di paradigma rispetto al passato consiste nel fatto che la creazione di valore non deve più essere l’unico fine delle aziende. Le imprese devono anche “investire nei loro dipendenti, proteggere l’ambiente, comportarsi correttamente ed eticamente con i fornitori, creare valore di lungo termine per gli stakeholder”. Come può essere possibile per la vostra esperienza? 

Paolo: posso dire di aver toccato con mano, nella quotidianità del mio lavoro, come sia sempre più gratificante fare degli investimenti a medio e lungo termine coi propri Stakeholders, non limitandosi ai benefici economici del breve termine.
I clienti e i fornitori apprezzano sempre più la trasparenza delle collaborazioni e la loro correttezza. A volte sono disposti anche a pagare dei servizi in più avendo la certezza della realizzazione e della qualità piuttosto che correre il rischio che il lavoro non venga fatto, o fatto con livelli qualitativi molto bassi.
L’analisi delle condizioni di fattibilità e dei rischi di un progetto diventa sempre più importante all’interno di strategie di medio-lungo periodo. Sempre più spesso la sola profittabilità di un progetto non basta per decidere di realizzarlo.
Daniele: tutto dipende dal sistema di valori che l’azienda ha scelto di darsi, di promuovere tra tutti i suoi dipendenti e di trasmettere ai propri clienti nei prodotti e servizi che vende.
Nell’azienda per la quale lavoro, per esempio, molti di questi principi etici sono nella cultura di base e vedo moltiplicarsi ogni giorno, anche tra i colleghi, approcci professionali ispirati proprio da questa cultura.
Si innesca così un circolo virtuoso che non può che portare crescita per tutti.

Q. Un altro tema cruciale è quello del “coltivare talenti”: come?

Paolo: da quando ho iniziato ad occuparmi di formazione ho sempre sentito parlare di talenti, come trovarli, come farli crescere, come trattenerli.
Penso che tutto potrebbe semplificarsi immaginando quanto possa essere più felice una persona se fa un lavoro che gli piace secondo le proprie attitudini, conoscenze e competenze e quale beneficio possano trarre le organizzazioni da questa situazione.
Secondo il mio punto di vista non è corretto parlare di talenti e talento in modo generale e generico, ma bisognerebbe farlo in modo relazionale: talento e talenti rispetto a chi e a che cosa?
Potrebbero esistere persone giuste nel posto giusto. Se le organizzazioni spendessero più tempo a mettere la persona giusta al posto giusto probabilmente molte, se non tutte le persone, sarebbero dei talenti in quello che fanno.
Daniele: credo che il modo migliore per coltivare un talento sia quello di dargli lo spazio e gli strumenti per crescere: le capacità personali faranno il resto, da sole.
Per questo alcune aziende, secondo me lungimiranti, lasciano del tempo “libero” ai loro dipendenti in modo che questi possano dedicarsi ad attività, studi, interessi che potrebbero rivelarsi persino di valore per l’azienda stessa, anche se non nell’immediato.
Ovviamente sono fondamentali anche adeguati strumenti di learning per supportare e massimizzare questa crescita professionale.


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Q. Oggi si parla sempre più di “employability” ovvero ciò che rende una persona in grado di ottenere e mantenere un impiego. Come è possibile instillare nella popolazione aziendale tutta il senso di curiosità e la passione per l’apprendimento continuo?

Paolo: penso sia una questione culturale che vada sviluppata e stimolata ancora prima che le persone entrino nelle organizzazioni.
Allo stesso tempo nelle organizzazioni servirebbe dedicare il giusto tempo per sensibilizzare tutte le persone dell’importanza della formazione continua non solo nell’ambito lavorativo.
Sono convinto che un tale cambiamento non possa avvenire dall’oggi al domani.
Grazie ad un impegno quotidiano nel sensibilizzare le persone su queste tematiche e grazie all’esempio pratico di persone che possono dimostrare come una formazione continua sia indispensabile alle persone, non solo per la loro vita lavorativa, ritengo si possano ottenere notevoli miglioramenti in termini di formazione continua a 360 gradi.
Daniele: per la mia esperienza, posso dire che un ambiente di lavoro in cui c’è l’esempio virtuoso di colleghi che studiano, approfondiscono e sperimentano è il modo migliore per stimolare ognuno a trovare la voglia e la passione per il proprio miglioramento continuo attraverso l’apprendimento. Insomma, un esempio vale più di mille parole.
Quello che può e deve fare l’azienda, per alimentare tutto questo, è garantire che il merito sia sempre riconosciuto.

Q. Cosa ci rende Human? Cosa ci rende Digital? Human e Digital possono coesistere?

Paolo: penso che il fattore umano sia qualcosa di intrinseco e imprescindibile per le persone, mentre il fattore digitale lo vedrei più come una sua derivazione, uno dei tanti modi in cui il fattore umano può declinarsi nella concretezza dell’esistenza.
Parlando di persone vedo la possibilità che il fattore umano possa anche declinarsi senza componenti digitali mentre faccio più fatica a immaginare un fattore digitale non collegato al fattore umano.
Penso che si possa essere Human senza essere Digital, ma trovo più difficile immaginare di essere Digital senza essere Human.
Non differenzierei fra Human e Digital; entrambe fanno parte della persona e della persona nelle organizzazioni. Penso che senza la coesistenza dei due fattori sia molto difficile immaginare uno sviluppo consapevole e sostenibile.
Daniele: ci rende Human la capacità di provare empatia e l’essere imperfetti. Digital è la tecnologia che usiamo, con il suo rigore, i suoi risultati esatti, la sua immediatezza.
Far coesistere questi due mondi credo sia possibile, ma solo se riusciamo a fare in modo che quel rigore non sia il fine, ma solamente un mezzo per migliorare la nostra vita. Rimanendo, di fatto, Human, che è ciò che siamo.

Q. Uno dei temi su cui le organizzazioni stanno riflettendo è quello dell’etica digitale: un vostro punto di vista sul tema. 

Paolo: ritengo sia di fondamentale importanza che anche il mondo digitale si doti di un’etica che possa indirizzarlo verso il bene comune.
Servirebbero delle regole che preservino quantomeno i valori fondamentali degli esseri umani, come per esempio l’uguaglianza nel rispetto delle diversità di ognuno.
Vedo dei rischi molto alti a lasciare le potenzialità del mondo digitale senza delle linee guida e dei valori minimi condivisi e comuni che tutti dovrebbero rispettare e nessuno calpestare.
Daniele: guardando a tutti i recenti casi aziendali che hanno fatto emergere scandali in tal senso, effettivamente delle regole servono.
La difficoltà, tuttavia, è non renderle invasive e limitanti per l’evoluzione e la crescita del mondo digitale: è, di fatto, la sfida per la sostenibilità dell’evoluzione tecnologica.
Se quest’ultima non è in grado di essere al servizio delle persone in modo sincero, a che serve?

Q. Un consiglio (libero) che dareste a:

  • Un giovane studente delle scuole superiori:

Paolo: trovare e seguire le proprie passioni.
Daniele: di non pensare oggi a quale lavoro fare da grande, perché il lavoro e il mondo cambiano sempre più velocemente, ma di cercare quello che ama veramente, le sue passioni.

  • Un collega appena entrato nella vostra azienda:

Paolo: ascoltare i colleghi più anziani.
Daniele: gli direi che entrare in un’azienda deve essere sempre considerato un punto di partenza, mai un punto di arrivo.

  • Un collega che è in azienda da più di 10 anni:

Paolo: ascoltare i colleghi appena entrati.
Daniele: gli direi di non smettere di trovare ogni giorno la passione in ciò che fa. Quando la passione viene a mancare, forse è meglio cercare nuovi stimoli, eventualmente anche in un ruolo differente nella stessa azienda.

Conclusioni

Due professionisti, con un background così diverso tra loro, ci hanno dimostrato che non ci sono delle differenze di pensiero così eclatanti; ma piuttosto, una convergenza e molti punti in comune. Siamo sulla strada giusta.

Oggi non viviamo in un’epoca di cambiamento, quanto in un cambiamento d’epoca. –  J. Bergoglio


Già nel 2018 su Spremute Digitali si parlava di umanesimo digitale. Vieni a scoprire con quale personaggio e in quale occasione.


Be Human. Be Digital. Be Human Digital. Come essere umani, nel mondo digitale.

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