Se la PA invecchia, l’age management è la soluzione
La PA invecchia e appare impoverita di lavoratori e competenze. L’Age Management è l’opportunità da cogliere. Permette di integrare la forza lavoro, tutta, limitando così il potenziale conflitto generazionale.
Un nuovo lessico entra nella Pubblica Amministrazione. Per innovare servono: life-long learning, work ability e age management.
Mai come ora, la PA è chiamata a essere il motore della ripresa. Eppure, sembra una sfida anche solo erogare servizi in formato digitale. Colpa del capitale umano, dicono gli Osservatori. Poco formato, poco numeroso, ma soprattutto troppo anziano. In una società che invecchia, assumere giovani risorse può non risolvere il problema. È arrivato il momento di migliorare la work ability degli impiegati pubblici.
Perché il “volto della Repubblica” è pieno di rughe?
Secondo il Censis, l’Italia è “sempre più un Paese di anziani che fanno i dipendenti pubblici e di giovani che lavorano come lavapiatti”.
Ci troviamo di fronte a una una polarizzazione settoriale per età. I millennials lavorano principalmente nel turismo. Gli over50 nella pubblica amministrazione.
Il fenomeno non sorprende. L’Italia ha il più basso tasso percentuale di dipendenti pubblici under35: il 2% contro il 18% OCSE. L’età media del “volto della Repubblica” è di più di 50 anni. Sarebbe anche più alta se non fosse per le forze armate e di polizia.
La colpa è del mancato turnover. I dipendenti pubblici diminuiscono da più di 10 anni. Tra le cause, l’aumento dell’età pensionabile della Riforma Fornero; i tagli alla spesa, che hanno fermato i concorsi. Il vincolo di bilancio sulle assunzioni, che è caduto solo nel 2019. In sostanza, la spending review.
Nel 2021 i dipendenti pubblici italiani erano circa 3 milioni. Il minimo storico degli ultimi 20 anni, secondo la ricerca presentata al FORUM PA a giugno scorso. Nello stesso anno sono diventati 3 milioni i pensionati da lavoro pubblico. Il rapporto è di 94 pensioni erogate ogni 100 contribuenti attivi. Mentre quello tra occupati nella PA e forze lavoro è stabilmente al di sotto del 15% da anni.
La PA appare impoverita di lavoratori e competenze. Il 76% degli italiani esprime insoddisfazione rispetto ai servizi erogati. Imprese e cittadini. Dagli anni ’70 a oggi, la pubblica amministrazione di Un borghese piccolo piccolo non sembra migliorata.
È vero, d’altra parte, che l’invecchiamento dei lavoratori influisce sull’organizzazione e il suo rendimento. I 45-60enni tendono a perdere “capacità lavorativa”. La performance a livello fisico cala, e anche l’apprendimento. Si esprime una sempre minore creatività. Viene a mancare l’adattabilità alle innovazioni, organizzative e tecnologiche. L’impatto su competenze, produttività e costo del lavoro è elevato e negativo.
Una PA “anziana” può costituire un effetto freno sulla Transizione Digitale.
Un processo che va ben oltre l’erogazione di servizi digitali.
Ovviamente non è un problema solo della Pubblica Amministrazione. O solo dell’Italia.
A livello mondiale, la popolazione continuerà a crescere almeno fino al 2050. Eppure il XXI secolo sarà ricordato come l’epoca del grande invecchiamento. L’incremento della popolazione anziana avverrà anche nei Paesi in via di sviluppo.
L’aumento della longevità è senz’altro un traguardo positivo. Tuttavia, il fenomeno innescherà una vera e propria ristrutturazione della società. Ci sarà uno spostamento delle strutture di produzione, welfare e consumi. Dai giovani agli anziani.
Preoccupa in particolare l’Italia, il cui invecchiamento è stato tra i più rapidi.
Ci salveranno i giovani?
Per agevolare il ricambio generazionale nella PA, è rifiorita la stagione dei concorsi. Il PNRR assicura che la programmazione sarà continua, periodica e digitale. Le nuove reclute? In via prioritaria, giovani laureati con competenze tecniche.
Qui su Spremute Digitali abbiamo già espresso qualche dubbio sulla Tech Capability dei giovani. L’abilità della PA nel giudicarle, poi, è un capitolo a parte. Le prove concorsuali, nella maggior parte dei casi, sono esclusivamente nozionistiche. Poiché il giudizio deve essere il più spersonalizzato possibile, nessuno può essere selezionato per le proprie caratteristiche. Con buona pace delle tanto decantate soft skills.
Ma non è questo l’unico problema; e nemmeno il più urgente. I giovani sono pochi. E resteranno pochi. La strategia della sostituzione diretta giovani-anziani non reggerà sul lungo periodo.
In Italia, il tasso di fecondità è pari a 1,29 per donna. Ben lontano dalla soglia di 2,1 che tiene in equilibrio il rapporto tra generazioni. Un andamento preoccupante, che si incrocia con l’aumento dell’età media della genitorialità (32 anni). Nel frattempo diminuisce anche il numero di persone in età per fare figli. Tra i 32 paesi OCSE, l’Italia ha la percentuale più bassa di giovani tra 15 e 29 anni: solo il 15%.
Particolarmente grave sembra essere la situazione del Mezzogiorno. Al tradizionale sottosviluppo economico si è aggiunto quello demografico. Tra le cause anche il perdurare dell’emigrazione verso il Centro-Nord o addirittura l’estero. Se il south working riuscirà a invertire questo trend, ce lo diranno solo gli anni a venire.
Nemmeno l’aumento delle donne straniere in età fertile è sufficiente a controbilanciare il calo. Qui la questione dello ius soli assume un suo peso. I concorsi pubblici sono infatti riservati a chi ha la cittadinanza italiana. Solo dopo l’intervento della Corte di Giustizia Europea, alcuni sono stati aperti ai comunitari. Moltissimi pubblici impieghi sono riservati a chi è rigorosamente italiano.
Una perfetta sostituzione non è quindi possibile. Non lo sarà mai, a meno di un miracolo demografico. Nella PA sono chiamate a convivere molte generazioni. Una diversità che può essere una risorsa. Oppure un limite, se non si mettono in atto azioni incisive.
La sfida dell’invecchiamento demografico nella PA
Nella PA bisogna introdurre innovazione. Tecnologica e digitale, ma anche organizzativa. Servono nuove politiche di gestione delle risorse umane.
Una forza lavoro che invecchia ha esigenze specifiche. Di salute, innanzitutto. Sicuramente sarà necessario modificare i luoghi di lavoro. Riadattarli in termini di sicurezza, ma anche di sviluppo delle capacità lavorative. Favorendo i luoghi di scambio e interazione.
Si parla molto anche di welfare aziendale. Sono iniziative e benefit che il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori. Per migliorare il loro benessere, materiale e psicofisico. Ne fanno parte gli strumenti di conciliazione vita-lavoro e di gestione dello stress. Come gli orari di lavoro flessibili, per esempio. Oppure la possibilità di lavorare da remoto. Su questo tema arrivano però dal Governo segnali contraddittori. Nei prossimi mesi, lo smart working sarà concesso solo al 15% dei dipendenti pubblici.
Soprattutto però servono politiche del personale che valorizzino competenze ed esperienze. Che guardino al cambiamento, capitalizzando il presente. Saranno necessari cospicui investimenti in formazione continua, soprattutto verso metà carriera. Generalmente, infatti, si tende a escludere i dipendenti anziani dall’aggiornamento professionale. Ma sono proprio loro a essere una risorsa.
Diverse ricerche empiriche hanno sottolineato le caratteristiche positive di questi lavoratori. Maggiore fedeltà, disponibilità a collaborare, affidabilità e responsabilità. Migliori capacità relazionali. In particolare, c’è una competenza che sembra essere particolarmente interessante per la PA. I lavoratori anziani hanno ovviamente più esperienza. Conoscono bene le procedure e le casistiche più frequenti.
Essendo una macchina burocratica, questo know-how è valore aggiunto per la Pubblica Amministrazione. E può essere acquisito solo con il tempo.
Invece Brunetta, già famoso per il blocco del turn over, spinge sugli scivoli di prepensionamento. Senza curarsi del capitale umano che dall’oggi al domani potrebbe sparire.
Tuttavia, il livello di partenza della PA non è dei migliori. Il 58% degli impiegati pubblici non è laureato. Più del 20% possiede solo il diploma di terza media. L’aggiornamento professionale è stato praticamente inesistente.
La formazione ai dipendenti ha subìto negli scorsi dieci anni un taglio del 41%. Lo Stato eroga oggi in media 1,2 giorni di formazione all’anno. Il dato scende a 0,85 giorni per le donne e a 0,51 giorni per gli impiegati ministeriali.
Soprattutto è mancata la formazione sui nuovi servizi. Solo il 70% delle amministrazioni locali ha fatto formazione sugli strumenti informatici da usare. Più in generale solo il 5% dei dipendenti pubblici ha seguito corsi per accrescere le competenze digitali. Non sorprende se prima della pandemia solo il 7% degli enti usava lo smart working.
È necessario quindi recuperare il tempo perduto. Lavorando sulla work ability. Ossia sulla capacità di riuscire a “svolgere il proprio lavoro nel presente e nel futuro”. Alcune ricerche hanno evidenziato l’esistenza di un suo rapporto con la motivazione. Bassi valori di work ability sono associati a una maggiore possibilità di ritiro anticipato.
Nella PA solo 13,8% dei dipendenti arriva al pensionamento per raggiunti limiti di età. Sono il 20% del privato e il 28% fra i lavoratori autonomi.
Sono tanti gli aspetti che possono migliorare la work ability. La PA deve lavorare su mansioni e competenze, facendole evolvere nel tempo. Anche per non depauperare le nuove risorse che ora entrano nell’organico. Semplicemente, deve introdurre le pratiche di Age Management.
Come introdurre l’Age Management nella Pubblica Amministrazione?
Nella PA le iniziative di Age Management sono ancora saltuarie. Eppure sembra proprio il posto ideale per la loro implementazione.
Andrea Margheri e Pietro Patton già nel 2014 hanno pubblicato un breve vademecum. Innanzitutto, ci sono dei passi preliminari da compiere:
- progettare le mansioni in funzione dell’età, favorendo la mobilità interna e la riconversione del personale
- costruire una dirigenza attenta e dotata di intelligenza emotiva
- introdurre modalità di gestione orientate all’ascolto e alla partecipazione
- strutturare momenti formativi lungo tutta la carriera, anche tenendo conto della diversità di apprendimento.
Tutto ciò avrebbe già un forte impatto sulla motivazione.
L’interesse a rimanere più a lungo nell’amministrazione resta circoscritto ai dipendenti con ruoli direttivi. La preferenza per il prepensionamento è forte infatti nei lavoratori meno qualificati. Proprio quelli che soffrono l’innovazione tecnologica.
L’uscita dall’attività lavorativa è un tema importante dell’Age Management. Il pensionamento deve essere graduale. È nel momento di transizione che si possono esplorare pratiche di affiancamento.
Il mentoring ha due importanti vantaggi. Da una parte, i neo assunti acquisiscono informazioni non trasmissibili attraverso i manuali. Dall’altra, i lavoratori più anziani sentono di poter dare ancora un proprio contributo. Si limiterebbe così il potenziale conflitto generazionale.
L’Age Management è proprio questo. Non agisce su una fascia d’età in particolare. Ciò che interessa è l’integrazione della forza lavoro tutta. Sono tante le opportunità che possono scaturire da questo sforzo.
É arrivato il momento che la Pubblica Amministrazione le colga. Perché come Paese ne abbiamo proprio bisogno.
Se la PA invecchia, l’age management è la soluzione