A Torino, un living lab sull'economia circolare
A Torino, un living lab sull'economia circolare
La città di Torino ha lanciato un bando per le imprese sull’economia circolare. Le periferie torinesi potranno essere un laboratorio a cielo aperto per l’innovazione, valorizzando le realtà locali dei quartieri. Tutte le proposte ammesse al testing riceveranno un contributo a fondo perduto fino ad un massimo di 15.000 euro pari al 50% dell’investimento complessivo ammissibile a copertura delle spese di sperimentazione.
E se un’impresa italiana volesse partecipare… da dove potrebbe iniziare?
Lo chiediamo ad Antonio Castagna, esperto di economia circolare, project manager del soggetto gestore che aiuterà la città a comunicare il bando e sostenere le idee progettuali fin dalla loro nascita.
Perché un’impresa dovrebbe provare ad innovarsi nell’ambito dell’economia circolare
Q. Da dove potrebbe iniziare un’impresa italiana per partecipare al bando Torino living lab?
A. Immagino che un’azienda che decide di fare una sperimentazione a Torino abbia già più di una mezza idea di business e voglia approfittare del contesto favorevole che la città sta creando. Direi che la prima cosa da fare è mettere quest’idea per iscritto, anche se incompleta.
Per questo abbiamo preparato un questionario, che può essere utile per tre motivi:
- Il primo: aiuta chi intende presentare la propria candidatura al bando, a fare una prima focalizzazione;
- Il secondo: permette a noi di avere un’idea più precisa e immediata di quali sono gli orientamenti presenti presso i potenziali destinatari della comunicazione;
- Il terzo: ci permette di creare un immediato canale per alimentare il confronto.
Il nostro compito nelle prossime settimane sarà di accompagnare questa fase di progettazione.
Abbiamo previsto 4 incontri da fare sul territorio della città di Torino. Ma aggiungeremo anche degli incontri one to one, telefonici o attraverso altri canali, con l’obiettivo di fornire orientamento e di aiutare, specialmente chi non è torinese e dunque non conosce bene il contesto, a cercare eventuali partner, o a comprendere quali possono essere i quartieri che si prestano meglio ad una sperimentazione.
Q. Perché un’impresa dovrebbe provare ad innovarsi nell’ambito dell’economia circolare?
L’espressione economia circolare negli ultimi anni ha avuto una specie di boom mediatico. Ne parlano tutti, non sempre in maniera convincente o coerente. La cosa veramente importante, mi pare però il fatto che è un approccio molto convincente, sia dal punto di vista delle prospettive di sviluppo che offre, sia dal punto di vista della capacità di coniugare sviluppo e sostenibilità ambientale.
Un’ipotesi talmente convincente che, la stessa Unione Europea è impegnata in un percorso strategico ambizioso che porterà a sviluppi importanti, anche dal punto di vista del numero di posti di lavoro creati e della crescita attesa.
Alcuni paesi europei, come l’Olanda e la Scozia sono molto avanti nell’evoluzione delle imprese e dei servizi. Tutto questo vuol dire che il vincolo rappresentato dalle risorse finite che diventano sempre più care, oramai è percepito a molti livelli, sia dalla politica che dagli attori economici. Semplificando molto, si va in quella direzione.
Non sarà facile né immediato, ma le previsioni dell’Unione Europea sono che entro il 2035 vivremo in uno spazio economico prevalentemente circular. I modelli di business più innovativi del resto, quelli connessi alla sharing economy, ad esempio quelli che mettono al centro l’accesso a un servizio, piuttosto che la proprietà di un bene, sono già oggi estremamente diffusi, come è il caso del bike sharing e del car sharing.
Ma anche nel campo del riutilizzo e del ricondizionamento dei beni si muovono tanti soggetti, coniugando sapere artigiano e innovazione di mercato. Si pensi a un’impresa come Astelav, presente a Torino, che commercializza elettrodomestici bianchi, dopo averli ricondizionati. Vuol dire che i beni sono rivenduti con le stesse garanzie del nuovo, prolungandone il tempo di vita.
Alcuni di questi servizi sono abilitati dalle nuove tecnologie, dalle applicazioni mobile, dal web; altri sono servizi per certi versi tradizionali ma collocati in nuovi contesti.
Un esempio di questo tipo è quello di un’altra azienda torinese, Oikos, che gestisce un servizio con il quale mette a disposizione dei “mercatari” che operano nei mercati rionali di Torino, cassette di plastica riutilizzabili, al posto delle usa e getta.
Si tratta di un mercato assolutamente tradizionale. La soluzione proposta, tra l’altro, è già applicata dalla grande distribuzione, ma in Oikos stanno sviluppando un modello organizzativo che consente a centinaia di singoli operatori, altrimenti difficili da organizzare, di accedere ad un servizio facile da utilizzare e meno caro di quello che impone l’acquisto di cassettine in plastica ogni mattina per trasportare ed esporre frutta e verdura. Questo processo è in grado di ridurre i rifiuti di migliaia di tonnellate, nel solo territorio piemontese.
Altri esempi sono nel campo dell’upcycling, la produzione di beni utilizzando vecchi oggetti come materia prima (ad esempio uno dei primi materiali utilizzati in questo campo sono state le camere d’aria delle biciclette, riutilizzate per realizzare borse. Per anni abbiamo visto lampade realizzate con vecchie latte di pomodoro o altri oggetti di uso quotidiano, ma le possibilità e i materiali disponibili sono molti più di quelli che immaginiamo).
Una cosa importante, il bando è rivolto alle imprese, vuol dire che è aperto anche ai singoli, purché abbiano una partita iva, alle cooperative e alle cooperative sociali, anche quelle di tipo A, che hanno uno scopo prevalentemente educativo, ma che negli ultimi anni hanno sviluppato progetti molto interessanti anche nell’ambito dell’economia circolare.
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A. Secondo me, dal punto di vista delle competenze Torino è prontissima. Ha un dipartimento del Politecnico dove si lavora da decenni sul design sistemico e che sta contribuendo a indirizzare le linee di sviluppo strategico della Regione, con il progetto Re-trace.
Ha un tessuto di cooperative capaci di realizzare progetti interessanti, e talvolta fortemente innovativi. Ospita il primo centro di riuso mai realizzato in Italia, con tutti i crismi che deve possedere. Ha un tessuto sociale capace di attivarsi e immaginare insieme.
L’Hub territoriale è un soggetto che dovrebbe dedicarsi a connettere tutto questo, ad attivare nuove ipotesi e ad attrarre da fuori competenze e iniziative, utili allo sviluppo di un disegno coerente. Dovrebbe inoltre garantire una certa continuità nella relazione con le istituzioni locali (spesso puntuale e connessa a singole iniziative) e favorire una certa coerenza degli interventi e lo sviluppo continuo di innovazione.
Faccio un esempio anche qui: da un processo di progettazione partecipata, finanziato dall’Unione europea, UrbanWINS, è emersa la possibilità di ripensare gli eventi che si realizzano in città, attraverso un approccio di economia circolare. La città di Amsterdam ce l’ha fatta e anche a Ferrara ci hanno lavorato. Si può fare. La difficoltà sta nel numero di attori da coinvolgere, dai vigili del fuoco ai responsabili del settore commercio, che di solito stanno a presidio di questioni di rispetto delle procedure.
Ecco, coinvolgere tutti questi attori, dotati di competenze specifiche e immersi in processi ampiamente consolidati, è la parte più difficile. Non tanto per una mancanza di volontà, ma forse, mi viene da dire, perché non si è ancora espressa una chiara e coerente volontà di operare in una certa direzione.
L’Hub per me è, prima ancora di essere un soggetto con competenze e obiettivi definiti, una dichiarazione e una presa di impegno da parte delle amministrazioni locali e di altri importanti attori del territorio del tipo: sì, è lì che vogliamo arrivare e ci arriveremo.
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