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La Sharing Economy alla luce del caso Uber

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Sono ormai sempre più diffusi in rete, i servizi innovativi basati sulla sharing economy. Generalmente, si tratta di piattaforme informatiche che mettono in contatto utenti privati, al fine di condividere o offrire determinati beni o servizi.
Spesso questi servizi innovativi, vanno ad intaccare settori di mercato contrassegnati da forte regolazione normativa e riserve di attività, originando fortissime polemiche con gli operatori tradizionali, preoccupati dall’impatto di queste applicazioni sulla propria attività.

Uber è sharing economy o no?

Il caso di Uber Pop è emblematico: un’applicazione che consente agli utenti di prenotare corse private, offerte da driver professionisti, in modo semplice e veloce; in aggiunta, il costo medio delle “corse”, è inferiore rispetto alle tariffe applicate da radiotaxi e NCC.
Da qui, le accuse di “concorrenza sleale” mosse dalle associazioni di categoria di tutta Europa nei confronti della società Uber; rea, a loro dire, di organizzare un servizio di trasporto che, a tutti gli effetti, viola la rigida normativa di settore.
Uber ha sempre sostenuto di non essere un fornitore di servizi di trasporto, ma un mero gestore di piattaforma informatica che si limita a mettere in contatto domanda ed offerta, totalmente estraneo all’effettiva erogazione della prestazione.
Nella realtà dei fatti, sulla base delle prime pronunce di merito, si sta consolidando un orientamento favorevole alle associazioni di categoria. In poche parole, alla luce del penetrante potere organizzativo esistente in capo alla società che gestisce la Piattaforma, è stato affermato che Uber costituisce effettivamente un fornitore di servizi di trasporto.
Si è detto: sono loro a selezionare gli autisti, a fissare il prezzo massimo delle corse, ad incassare le somme in nome e per conto dei driver; a ricercare attivamente gli autisti ed a promuovere il servizio.
Non può quindi parlarsi di matching tra domanda ed offerta, bensì di un servizio complesso organizzato da una società, che si “avvale” di soggetti privati, estranei alla propria organizzazione.
Inoltre, la recentissima sentenza del 20 Dicembre scorso della Corte di Giustizia Europea, ha fornito un importante contributo alla discussione, ribadendo che questo tipo di piattaforma altro non è che l’organizzazione in forma 2.0 di un comune servizio di trasporto, ed in quanto tale deve sottostare alla stessa normativa di settore.
Tradotto in parole povere, il fatto di essere una piattaforma informatica, non dovrebbe esonerare Uber dall’assicurare che tutti gli autisti siano in possesso dei requisiti previsti dalle vigenti legislazioni locali per l’esercizio delle attività di autotrasporto non pubblico di linea.
La Corte Europea ha ritenuto che:

  • in linea di principio, mettere in contatto un conducente non professionista che utilizza il proprio veicolo, e una persona che intende effettuare uno spostamento in area urbana, può essere inteso come servizio di natura puramente informatica;
  • nel momento in cui chi fornisce la piattaforma può incidere in modo più che rilevante sulla determinazione delle modalità operative ed organizzative del trasporto (come già detto sopra), saremmo al di fuori della mera intermediazione e si configurerebbe un servizio di trasporto vero e proprio.

Perché si tratta di una sentenza d’importanza fondamentale?
Perché si comincia a delineare il quadro giuridico dei servizi 2.0.


Leggi anche Sharing Economy: tassare o non tassare?


Ad oggi, l’unica normativa applicabile resta quella dettata in materia di commercio elettronico (risalente al 2001). Pertanto si è sempre cercato di qualificare le piattaforme informatiche nella classica tripartizione dei fornitori di servizi internet: mere conduit, caching e hosting.
In particolare, si è tentato di “allargare” le maglie dell’”hosting” per farvi rientrare tutti i prestatori di servizi 2.0.
Si sosteneva che questi soggetti si limitavano a fornire l’infrastruttura informatica necessaria a consentire agli utenti di caricare le proprie informazioni e condividerle con gli altri e, quindi, dovevano essere configurati come hosting provider.
Il fine era, evidentemente, quello di beneficiare delle esenzioni di responsabilità previste dalla normativa sul commercio elettronico sulle attività di hosting, secondo cui il provider non è responsabile, se non è a conoscenza della natura illecita delle informazioni.
Per questa ragione, i provider di servizi 2.0 hanno sempre tentato di “rivendicare” la propria estraneità rispetto alle condotte degli utenti.
A dire il vero, la giurisprudenza si era mostrata molto critica verso questa impostazione, giungendo a delineare la figura dell’hosting provider attivo. Cioè quel fornitore di servizi che, alla luce di una intensa attività di organizzazione dei contenuti degli utenti, non può essere considerato “estraneo” e “neutrale” rispetto alle attività degli utenti.
Ma nel caso dei servizi 2.0 ci si è spinti ancora oltre
Sono sorte piattaforme per l’organizzazione dei servizi di trasporto, per l’esecuzione dei traslochi, per la consulenza legale ecc.

Ha ancora senso il concetto di “hosting”?

Probabilmente no. Si tratta di piattaforme che, sostanzialmente, offrono servizi della vita reale (i traslochi, i trasporti, la consulenza ecc.) in una nuova forma: secondo modelli in cui la piattaforma e gli utenti fornitori, costituiscono due elementi imprescindibili ed interdipendenti.
Con la sentenza della Corte Europea sono stati chiariti i parametri per distinguere cosa può costituire un mero servizio della società dell’informazione, dalla fornitura di un servizio della vita reale in forma.
L’elemento decisivo è rappresentato dal potere del gestore della piattaforma di “dettare le condizioni del servizio“.
Se mi limito a mettere in contatto i turisti con i soggetti che offrono servizi ricettivi (hotel, b&b ecc.), ma le condizioni sono dettate da questi ultimi (che decideranno prezzo, modalità di prenotazione ecc.) sarò un mero servizio informatico.
Se invece decido il prezzo e le modalità di soggiorno ed i servizi connessi, potrei essere qualificato come operatore turistico, ed eventualmente soggetto alle normative in vigore negli stati membri.
Alla luce di questi nuovi parametri, diviene ancora più essenziale la fase di validazione legale del modello di business.
Il consulente legale dovrà analizzare in profondità il business model per comprendere se, l’eventuale execution dell’idea così come proposta, possa dare adito a possibili conflitti con la normativa applicabile al servizio della vita reale, offerto tramite la piattaforma informatica.
 


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La Sharing Economy alla luce del caso Uber

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