Persone borderline, organizzazioni borderline: qualcuno le ascolti, direbbe Marco Stancati
Un'intervista a Marco Stancati per sottolineare quanto sia importante tenere conto delle conseguenze psicologiche della pandemia e dell’isolamento.
“Occorre vigilare sul posto di lavoro sui segnali di cedimento psicologico dei colleghi: ci sono più situazioni borderline di quanto non immaginiamo. In ambito universitario si sta affermando l’esigenza di assicurare un servizio di supporto psicologico agli studenti (e non solo). Servirebbe anche sul posto di lavoro.”
Questo il messaggio di Marco Stancati che mi ha definitivamente convinta dell’importanza di affrontare il tema con la massima serietà. In effetti sono stati tanti i segnali su cui ho posto l’attenzione in questi ultimi mesi: discussioni per banalità all’ordine del giorno, facili scatti di ira; messaggi ed email a tutte le ore del giorno; tanti post dedicati al burnout; occhiaie in tutte le video-call; costanti “ehm, andiamo, sono sommerso”.
Macchie sul volto, bolle, schiene sempre più piegate, occhi affaticati per il lavoro al computer, mani irritate, postura e spalle ricurve; l’estate scorsa sono stata tra quelle persone che hanno duramente criticato Susan, ossia l’elaborazione grafica di un modello creato dalla piattaforma di ricerca del lavoro DirectlyApply.
Ho contestato la stortura dello Smart Working, perché ciò che stiamo vivendo è assolutamente lontano dal lavoro agile, venendo meno il principio della libertà, quindi la sua base fondante. Non è Smart Working, come non è vero che lo Smart Working diminuisce la creatività: la creatività se è diminuita, è a causa della pandemia.
Questo lavoro così forzato però, ovviamente per chi non vede compromessa la sua attività, ci sta forse davvero avvicinando a Susan. Nell’era dell’iperconnessione e del burnout, che rappresenta la più vera e grossa sfida manageriale e culturale, la salute mentale e fisica ricopre un posto di primaria importanza.
Ci sono livelli più alti di ansia e di depressione nelle organizzazioni da remoto. C’è ancora più bisogno del supporto dei propri manager.
Lasciando irrisolti i problemi di salute mentale, saremo sonnambuli in una cultura post-pandemica di assenteismo, elevato turn-over del personale e riduzione della produttività, come ben esplicitato in un recente articolo del Financial Times.
Sono davvero tante le evidenze che dimostrano la necessità di tenere conto delle conseguenze psicologiche della pandemia e dell’isolamento. Tra i più colpiti donne e lavoratori in “smart working”, come riportato in un articolo di HuffPost. Stiamo vivendo qualcosa di trovolgente per il nostro benessere psichico: sono diffusissimi i sintomi di stress (Pandemic Fatigue) e il logoramento psicologico a causa di tempi e modi di vivere stravolti; della costante precarietà; della ridotta ricarica affettiva; della forzatura nelle case da soli o con i familiari (consiglio di leggere “Oltre la pandemia” di Maria Beatrice Toro).
Dopo questa premessa, vengo al dialogo con colui che ha riacceso in me il bisogno di parlarne.
Ascoltiamo le organizzazioni. La parola a Marco Stancati
Q. Marco, ti presenti con un tweet?
A. Uno nato analogico alle prese con l’era digitale che non rifiuta, anzi. Un meticcio digitale che sta per compiere 73 anni, ma continua a lavorare come comunicatore-formatore, a insegnare alla Sapienza di Roma (Comunicazione d’impresa), a porsi e a porre domande scomode.
A. Hanno tra i 21 e i 26 anni in genere i miei studenti, con una netta prevalenza di donne. Un’età nella quale la fisicità gioca un ruolo determinante nei rapporti sociali e loro da un anno ormai sono costretti a relazioni quasi incorporee, dominate da uno spietato condizionamento psicologico: il corpo dell’altro/a può essere portatore del male.
Da un anno tutti noi abbiamo dovuto condizionare la gestualità più indispensabile: dalla stretta di mano, all’orgasmo passando per tutti gli altri comportamenti che incarnano passione, tenerezza, amore. Stiamo vivendo la sospensione dell’affettività praticata o quantomeno la sua forte riduzione.
Sfoghiamo la nostra esigenza di carezze, di gesti affettuosi con gli animali domestici che si chiederanno come mai gli esseri umani, da quando vanno in giro con la museruola, sono diventati così abbracciosi…
Gli studenti: già prima della pandemia usavo social e piattaforme per dialogare con loro creando stanze virtuali. Certo non con la frequenza di oggi, ma a integrazione della relazione analogica, quella piena che può contare su tutti e cinque i sensi.
Già da aprile dell’anno scorso, dopo un mese di lockdown, ho recepito l’esigenza di creare occasioni di dialogo informale che consentissero agli studenti (ma anche a me!) sia di recuperare socialità sia di elaborare quello che stavamo e stiamo vivendo; parlandone.
Sono nati così “i cenacoli del sabato” dove possono partecipare studenti, colleghi, semplici interessati in numero massimo di 14 in modo da poter stare tutti sullo schermo con una comunicazione non verbale, certo ridotta, ma presente e percepibile.
Q. “Non siamo insensibili al grido di dolore” e tu concretamente, quindi hai unito alle parole un piano per ascoltare, ESSERCI davvero con i ragazzi. Sei uomo d’impresa e ti chiedo, come farlo nelle organizzazioni?
A. La citazione, chiaramente ironica, serviva a introdurre l’iniziativa facendo capire che avremmo parlato della pandemia, della DAD e dintorni con la pluralità di toni di voce consentita dall’intelligenza emotiva: con rigore, serietà, ma anche empatia e capacità di ridere di noi stessi e di alcune situazioni. Insomma, una risata al posto dello Xanax: come bio-ansiolitico con una strizzata d’occhio alla sostenibilità sociale.
Come farlo nelle Organizzazioni? La risposta è la stessa: ascolto. Nella unica forma che lo rende vero, effettivo: quindi ascolto empatico. In molti casi, a livello di grande e media azienda, esistevano già “da prima” presidi di welfare aziendale che mettono a disposizione forme varie di sostegno psicologico in qualche modo presidiate anche dai Sindacati. Ma le aziende che possono (e devono) porsi il problema dell’impatto sulle persone del lavoro a distanza e del cambio dei paradigmi organizzativi e comunicativi sono già, in un certo senso, in una situazione di privilegio. Perché il tessuto produttivo italiano è fatto nella stragrande maggioranza dei casi, di piccole e piccolissime aziende dove il problema, prima ancora che come riflessi organizzativi e psicologici dell’home working o dello smart working, si è posto come problema di sopravvivenza dell’azienda e come necessità di assicurare il minimo vitale per le famiglie di chi ci lavora.
Sto facendo “consulenze pro bono” da un anno per i settori più in crisi (turismo, ristorazione, spettacolo) e registro amarezza, ansia, rabbia… E una tensione sociale che può diventare esplosiva con identificazione del “nemico” nei garantiti della Pubblica Amministrazione: i docenti “dadaisti fancazzisti” e gli impiegati burocrati che ritarderebbero l’erogazione di sussidi, ristori, sostegni. Una contrapposizione “non garantiti” contro “garantiti” in qualche modo alimentata da una politica senza visione che cavalca i fenomeni contingenti per tradurli in voti.
Q. Hai letto la mia premessa, con la tua riflessione sui tanti casi borderline, arricchita da alcuni articoli che dimostrano sempre più rilevanti problemi per la salute mentale nelle organizzazioni, cosa pensi?
A. È un problema che non dobbiamo far finta di non vedere chiudendoci nella polarizzazione degli integralismi: tecno-fanatici vs tecno-negazionisti. Per i primi la tecnologia è salvifica comunque e a prescindere, per i secondi è portatrice di disumanizzazione e alienazione.
Il “disagio” va affrontato non solo dall’Organizzazione e quindi inevitabilmente top- down; ma a livello orizzontale tra colleghi creando occasioni e forme spontanee di ascolto reciproco che possono essere non solo una risposta più tempestiva, ma possono fare addirittura prevenzione, cogliendo i segnali quando sono ancora deboli.
L’Organizzazione dovrebbe sostenere queste forme di solidarietà dialogante, riconoscendole, incentivandole e integrandole nel welfare aziendale.
Q. Ti faccio una domanda articolata che ne ha tre al suo interno. Cosa faresti, per affrontare questi problemi di salute mentale emergenti, se fossi un Amministratore Delegato? E se fossi un Direttore del Personale? E un responsabile di team?
A. Sotto un profilo generale ti ho già risposto. Ora esemplifico, così scendiamo dal piedistallo della teoria nella quotidianità.
Siamo nella filiale italiana di una multinazionale con un quarto del personale che già praticava un vero smart working alla fine del 2019. Primo lockdown superato brillantemente e, addirittura, con un aumento del fatturato. A settembre il loro Ceo decide “di capitalizzare organizzativamente l’esperienza fatta”, di rinunciare agli ambienti in affitto, di convogliare ogni risorsa finanziaria verso un’acquisizione strategica. E mette praticamente tutto il personale in smart working, con questo messaggio ai suoi top manager: “Credo siate tutti consapevoli che era un’occasione irrinunciabile: l’ho colta. Ci saranno problemi organizzativi. Mi aspetto che li risolviate; a darvi una mano ci sarà la società di consulenza XY. Attendo il report di ciascun dipartimento per fine mese. Buon lavoro e auguri a tutti noi.”
Indubbiamente chiaro e scandito, anche se per nulla empatico.
Uno dei manager mi contatta: i suoi collaboratori erano quelli meno abituati a lavorare fuori dal posto di lavoro e lui non era abituato ad avere i collaboratori a distanza. Problemi di comunicazione interna nel suo Dipartimento e di comunicazione interpersonale. La tradizionale riunione del lunedì pomeriggio, spostata sulla piattaforma di video collaborazione, diventa un appuntamento ansiogeno nel quale “mi sembra di parlare da solo, una lista di cose da fare assegnate a 107 fantasmi”. Lui da solo nel suo ufficio e “tutti gli altri da qualche altra parte”.
Sono presto cominciati quei problemi di somatizzazione dello stress che tu hai anticipato nella premessa: per tutti, ma nessuno ne parlava “perché i ruoli sono ruoli” (ma che vuol dire?!)
Ne abbiamo ragionato; alla fine ha inviato questa e-mail ai 107 fantasmi: “Lunedì nessun report, nessuna slide, nessuna condivisione schermo. Guardiamoci in faccia e raccontiamo quello che stiamo vivendo. Inizierò io e potete capire che al ‘falco predatore’ non sarà facile. Spero non mi lasciate solo.” L’oggetto dell’e-mail era: “Basta, parliamone!”
Per la prima volta svelava di essere al corrente del suo soprannome (dovuto alla sua aggressività nel rastrellare budget): era un primo tentativo di rompere il ghiaccio.
E in effetti non gli è stato facile. L’inizio è stato problematico: parlava a scatti, continuava a sistemare oggetti sulla scrivania, non riusciva a guardare in camera… Poi progressivamente hanno iniziato ad accendersi le webcam e lo schermo si è popolato, hanno cominciato ad alzarsi le mani, quelle digitali e quelle reali… e il dialogo è iniziato.
Ecco Valentina, penso possa ispirare un AD, un responsabile HR, un middle manager, qualunque Persona abbia la responsabilità di altre Persone.
Q. Spesso mi hai ipnotizzata parlando di temi e portando quadri o immagini apparentemente lontani e in realtà molto profondamente legati all’argomento. Così, per salutarci, ti chiedo di condividerci un’ispirazione finale per questo
A. Mi viene in mente un pittore immenso, misterioso e “psicologo”: Antonello da Messina. Cerchiamo di fare come lui, quando il nostro dialogo è mediato da uno schermo e da una tastiera.
Mi spiego. Molti hanno visto le opere di Antonello solo sui libri e non si rendono conto delle reali proporzioni. Il formato prevalente è piccolo, soprattutto nei ritratti (40 x 33 ma anche 36 x 30 che contengono benissimo le proporzioni reali di un volto): “il massimo dell’analitico nel massimo del sintetico” come ha scritto Mauro Lucco.
Nella straordinaria mostra a Roma nelle Scuderie del Quirinale del 2006, molti visitatori sbalordirono quando si trovarono davanti non a quadri monumentali, ma quasi a “scatti” sorprendenti di cinque secoli fa; con quei volti si poteva parlare a meno di due metri di distanza!
Ecco, nei webinar mettiamo in primissimo piano il video di chi sta parlando in quel momento… In questo modo ci si apre la comunicazione più vera: quella del linguaggio non verbale del viso.
Guardiamolo quel volto sullo schermo come guarderemmo un ritratto di Antonello da Messina, che da psicologo ante litteram racconta la personalità di chi ha davanti cogliendola attraverso luci, ombre, un dettaglio elegante, una ciocca disordinata, uno sguardo fermo o sfuggente… E noi, in più, abbiamo anche il vantaggio aggiuntivo della para verbale!
Mentre ascoltiamo il racconto del nostro interlocutore, possiamo capire che storia c’è dietro attraverso la consapevolezza o l’incertezza di uno sguardo, uno sbattere ossessivo di palpebre, il fremito incontenibile di un sopracciglio, un respiro disteso oppure contratto da un’ansia che si mangia pezzi di parole. Quell’enfasi eccessiva, quelle pause mancate, quelle occhiaie impietose sotto un trucco approssimativo, quella postura afflosciata su un culo da troppo tempo stanziale, quelle mani mai distese per non mostrare unghie mangiate…
Insomma la fragilità, il dolore o la consapevolezza di sé.
Tra il condottiero consapevole e determinato e il povero Cristo, entrambi del grande Antonello, ci sono tutte le infinite sfumature del nostro essere umani del terzo millennio; umani alle prese con una pandemia e con la faticosa presa di coscienza dell’esigenza della sostenibilità.
Persone borderline, organizzazioni borderline: qualcuno le ascolti, direbbe Marco Stancati