Olivetti, storia e declino dell’eccellenza italiana
Olivetti: un’azienda che ha fatto la storia, che scalò vertiginosamente grazie ad innovazione, tecnologia, cultura e comunità. Un'anti-startup?
“[…] Ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande.”
Adriano Olivetti, figlio del fondatore dell’omonima azienda, nata ad Ivrea nel 1908 con un capitale di 350 mila lire e poco più di venti operai, racconta in una esigua sequenza di parole il significato più puro e genuino del suo modello aziendale, e più nello specifico, il suo concetto d’avanguardia.
La crescita nel corso dei primi 16 anni di vita dell’azienda, fino al suo subentro era già merito del desiderio tecnologico voluto da Camillo (il padre fondatore), tant’è che la M1, per sua volontà fu la prima macchina da scrivere italiana esposta all’universale di Torino.
Grazie all’attenzione data ai mercati esteri, per il tempo la società scalò vertiginosamente; fu però con il figlio che l’innovazione, la tecnologia, il miglioramento della vita della comunità, che veniva costruita attraverso e attorno all’azienda, divennero Mission fondamentale della società.
Olivetti: un’azienda che ha fatto la storia con cultura ed innovazione
La grandezza di Olivetti, nei primi anni del Novecento, fu anticipare drasticamente (e di quasi cinquant’anni) i modelli del capitalismo etico (o apparentemente etico) attuale, perpetrati da tutte le companies dedite al design del trust. Tra i tanti esempi: le scelte etiche e sostenibili poste in primo piano da Bezos, o il valore della collettività proposto da Google.
L’incredibilmente fulgida intuizione fu quella di capire che il profitto, non soltanto non fosse l’unica ragione di vita di una azienda, ma neanche la più importante. Al contrario lo era il processo dialettico che trasformava l’utopia in realtà, lo erano per lui le positively disturbing ideas, i valori immateriali che irrompevano nella vita di tutti i giorni della collettività; in poche parole i concetti moderni di Cultura e Innovazione.
L’azienda per decenni è stata l’esempio più meraviglioso di come l’engagement di ogni dipendente, per quanto piccolo fosse, all’ideale del progetto potesse rendere cento volte un lavoratore disinteressato.
In una parola, l’azienda coinvolgeva.
Che fossero dipendenti, persone affiliate, stakeholders, manager, consumatori non importava. L’ideale irrompeva da utopia nella realtà e pervadeva in una spinta meravigliosa la collettività e la totalità dell’ambiente in cui l’azienda si fosse immersa.
L’importanza all’ambiente in Olivetti
La seconda parola chiave in Olivetti era Ambiente.
In sostanza Adriano fu uno dei primi a comprendere la responsabilità sociale dell’impresa come valore inestimabile. Parlando di partecipazione: questa fu cruciale nella costruzione di un modello di business etico.
Valorizzare i dipendenti, creare orari di lavoro sani e permettere sviluppi creativi, oltre che pagare salari alti, sono stati i grandi capisaldi per raggiungere un coinvolgimento endemico. Un qualcosa di strappato all’utopia, una dinamica che partendo dal fattore strettamente economico e lavorativo di rispettare il dipendente, arrivava a costituire elementi di cultura e condivisione, crescita e promozione delle forme creative di potenziamento del processo di creazione del valore dell’azienda (checché ne dicano i detrattori che ne considerano questo il motivo del fallimento nel corso del tempo, non avendo nessuna dimestichezza con i mercati attuali, in cui politiche simili vengono adottate come formula risolutiva alla crescita).
Negli anni che vanno dal dopoguerra al 1960 l’azienda era considerata totale avanguardia tecnologica. Avevano dato vita a quella che gli impiegati storici definiscono una fucina dei talenti, interculturalismo votato alla tecnologia, tanto che nel 1959 viene presentato il primo calcolatore totalmente progettato in Italia, l’ELEA 9003. Una congrega di meccanici italiani nella sua epoca d’oro svetta sulla cima dell’universo tecnologico globale.
La morte di Adriano, il canto del cigno e il declino
Nel 1960 però viene a mancare improvvisamente Adriano, e nel 1961 in un incidente d’auto Mario Tchou, ingegnere capo del progetto Elea. Il colpo è fortissimo. Viene costituita la divisione elettronica per racchiudere tutti i progetti e le attività nel settore, ma la situazione finanziaria va via via peggiorando. Nel 1964 viene ceduta al 75% alla General-Electric. Le banche italiane chiesero alla Olivetti Divisione Elettronica il rientro immediato dei capitali. L’Olivetti fu costretta a “svendere” la sua Divisione Elettronica, con tutta la rete di assistenza.
Ciò nonostante l’anno dopo viene compiuto un nuovo miracolo, Olivetti lancia sul mercato nel 1965 quello che viene considerato il primo personal computer del mondo, il Programma 101.
Nel corso degli anni seguenti vennero apportate progressive modifiche alla catena di montaggio e all’orientamento della produzione, ma l’errore più grave fu forse quello di non comprendere l’importanza del loro prodotto di innovazione.
Nel 1968 Olivetti cede il restante 25% alla General-Electric ed esce dalla produzione dei medio-grandi calcolatori. Da lì in poi produrranno solo terminali elettronici e piccoli sistemi. Tra cui nel 1982 L’olivetti M20, che segue di pochi mesi l’ingresso nel settore di IBM.
Tutto questo però non basta. Nel corso degli anni 90 le scelte di mercato, la poca lungimiranza nei settori trattati all’infuori delle macchine d’ufficio, portano l’Olivetti a ingenti perdite economiche che devono assolutamente venire fronteggiate, costringendo l’azienda a vertere verso le telecomunicazioni, andando a costituire Infostrada e Omnitel, e andando ad abbandonare lo sviluppo tecnologico di cui erano leader; e sebbene queste due fossero importanti strutture per la comunicazione italiana, il prezzo però fu del totale abbandono della rilevanza nel mercato mondiale e di qualsiasi desiderio di crescita aziendale nel campo digitale.
La Olivetti dopo Adriano, alla fine dei conti non è stata in nessun modo favorita dall’ambiente finanziario, non per colpa del mercato in sé, quanto per la poca lungimiranza degli investitori, italiani, chissà se per scelta politica o sentore di un cupo futuro, e non avendo l’azienda strumenti favorevoli all’adattamento, per sopravvivere ha dovuto cambiare continuamente e radicalmente se stessa in una danza frenetica di triste e dolorosa disfatta.
Il prezzo pagato per la vita è stato perdere senso di quest’ultima; dell’azienda nei suoi tempi d’oro sono rimaste solo le logiche di mercato. Un’anti-startup potremmo dire.
Hanno sì adattato la produzione alle esigenze di mercato, ma non hanno mantenuto l’utopia di Adriano.
Non hanno perso, ma è stata sicuramente una vittoria di Pirro per tutti.
💡 Questo articolo fa parte della Rubrica dedicata agli imprenditori italiani, a uomini e donne che hanno fatto la storia. Continua a leggerci per scoprire chi sarà il prossimo ad essere raccontato.
Olivetti, storia e declino dell’eccellenza italiana