Intelligenza artificiale: Out-Performance, licenziamenti economici e competenze
Le frontiere applicative dell’intelligenza artificiale sono in continua espansione, generando un impatto senza precedenti, a trecentosessanta gradi sulla società globale.
Lo dimostra Xinhua, agenzia di stampa statale cinese, che da alcune settimane può contare su un “AI Anchor” o “Anchor Robot”: un connubio apparentemente perfetto di ologrammi, che simulano le fattezze umane di due giornalisti in carne ed ossa, e un’intelligenza artificiale (AI) di ultima generazione, generata e sviluppata dal motore di ricerca cinese Sogou che, attraverso algoritmi di Machine Learning, è in grado di affinare giorno dopo giorno il grado di accuratezza del proprio funzionamento.
Una disruptive innovation, destinata a lasciare il segno nel settore della comunicazione, giacché l’intelligenza artificiale in questione, «grazie agli algoritmi di deep learning evolverà fino a poter gestire anche le breaking news o le edizioni straordinarie, quando gli anchor di punta non saranno disponibili» (F. Santanelli, Tv, l’anchorman è un clone: va in onda il giornalista virtuale).
Ebbene, l’ingresso nella redazione del primo “AI Anchor” è stato presentato dalla stessa agenzia di stampa cinese come conseguenza di una scelta funzionale al conseguimento di obiettivi significativi: «reducing news production costs and improving efficiency» (v. comunicato stampa).
Riduzione dei costi ed incremento dell’efficienza organizzativa dell’impresa, quale rapporto con l’AI?
Le ragioni di cui sopra richiamano naturalmente il grande dibattito che l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel sistema produttivo globale ha suscitato in merito alla possibile distruzione di impiego che da ciò possa derivare, come effettivamente confermato dalla riflessione condivisa da tanta parte degli studiosi della materia.
Del resto, ci troviamo in un’«era che sarà definita da un cambiamento fondamentale nel rapporto tra lavoratori e macchine. Questo cambiamento finirà per mettere in discussione uno dei nostri più basilari presupposti sulla tecnologia: che le macchine sono strumenti per incrementare la produttività dei lavoratori. Piuttosto le macchine stesse si stanno trasformando in lavoratori, e la linea di demarcazione tra le possibilità del lavoro e quelle del capitale sta diventando più sfumata che mai» (M. Ford, Il futuro senza lavoro. Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti, Il Saggiatore, 2017, 12).
Il punto di vista giuridico
A ben vedere, da un punto di vista più prettamente giuridico, il citato incremento dell’efficienza organizzativa dell’impresa, per mezzo dell’introduzione di soluzioni digitali, costituisce una delle ragioni che la Cassazione italiana ha, negli ultimi anni, riconosciuto come pienamente legittimanti il licenziamento “economico” di un lavoratore (o, più correttamente, per giustificato motivo oggettivo, ovverosia il licenziamento per fatti inerenti «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», ai sensi dell’art. 3, l. n. 604/1966).
La Corte ha, infatti, ritenuto quest’ultimo sussistente in presenza non già soltanto di una sfavorevole situazione di crisi aziendale, che imponga all’imprenditore una riduzione dei costi, bensì anche a fronte di una riorganizzazione, tesa al conseguimento del solo incremento dei profitti, attraverso un cost saving, non imposto da scenari di crisi (cfr. Cass. n. 13015/2017; Cass. 25201/2016).
Il perimetro entro il quale il datore di lavoro può procedere al licenziamento di un proprio dipendente per ragioni economiche, si estende così significativamente, andando a ricomprendere nel terreno della legittimità anche quelle ipotesi in cui la risoluzione del rapporto si ponga quale strumento attraverso il quale perseguire una maggiore efficienza dell’impresa.
È evidente che le ricadute sociali di un simile orientamento paiono importanti, specialmente dove il processo di digitalizzazione della produzione rappresenta indubbiamente un fattore di efficientamento per l’impresa di non trascurabile rilievo.
Intelligenza artificiale tra out-performance, labour saving e cost saving
È infatti evidente che la tecnologia digitale e in particolare l’intelligenza artificiale, costituiscono di per se stesse un fattore di labour saving e, quindi, di cost saving, come evidenziato da attenta dottrina giuslavoristica:
«se l’innovazione (si immagini la robotizzazione di un intero reparto o l’introduzione di altre tecnologie che riducano la necessità di lavoro umano, incrementando in modo elevato la produttività) determina una sensibile riduzione dei costi aziendali, si è certamente in presenza di un giustificato motivo oggettivo» (V. Speziale, Il giustificato motivo oggettivo: extrema ratio o “normale” licenziamento economico, in A. Perulli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Giappichelli, 2017, 156).
Ed è del resto del tutto fisiologico che quella che potrebbe essere definita come l’out-performance dell’AI rispetto all’uomo – ovverosia l’abilità dell’intelligenza artificiale di svolgere mansioni precedentemente espletate dall’uomo, in minor tempo e spesso con maggiore accuratezza – possa determinare una naturale proiezione centrifuga dal mercato del lavoro, di alcuni lavoratori.
Ancora una volta la sfida della Digital Transformation si gioca sul terreno della formazione e delle competenze: skilling e reskilling costituiscono infatti la via ineludibile, al fine di garantire alle persone gli strumenti necessari per una loro collocazione o ricollocazione nel mercato del lavoro digitale.
Risulta perciò indispensabile «un netto aumento del tasso di alfabetizzazione digitale, assolutamente necessario per inserirsi nelle attività produttive riviste alla luce dell’introduzione dell’Intelligenza Artificiale» (M. Naldi, Prospettive economiche dell’Intelligenza Artificiale, in F. Pizzetti, Intelligenza Artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Giappichelli, 2018, 238).
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Ordinamento giuridico e scenario innovativo
Tuttavia, a fronte di un simile scenario ad elevato contenuto innovativo, gli strumenti che l’ordinamento giuridico è in grado di offrire in tal senso sono purtroppo pochi e paiono ancora concepiti ed elaborati avendo in mente il modello produttivo di un passato ford-based, che oggi non è più l’esclusivo contesto di riferimento.
Ancora una volta, premonitore e profetico è il pensiero di Marco Biagi che, più di quindici anni fa, di fronte ad uno scenario diverso, ma in un certo senso prodromico a quello che siamo oggi chiamati a fronteggiare, affermava:
Il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità, non altrettanto avviene per la regolazione dei rapporti di lavoro.
Il sistema regolativo dei rapporti di lavoro ancor oggi utilizzato (…), non è più in grado di cogliere – e governare – la trasformazione in atto.
La stessa terminologia adottata nella legislazione lavoristica (es. “posto di lavoro”) appare del tutto obsoleta. (M. Biagi, citato in M. Tiraboschi, Una regolazione agile per il lavoro che cambia, in AA.VV., La nuova grande trasformazione del lavoro, Adapt University Press, 2017, 9).
Occorre dunque alimentare e tenere vivo il dibattito attorno all’opportunità di un percorso veramente riformatore, che tenda ad una riscrittura delle regole del lavoro, nel tentativo di colmare lo iato tra la velocità della trasformazione digitale e la lentezza (e inadeguatezza) del riformismo regolativo.
L’irrefrenabile processo di digitalizzazione in atto, quale strumento di riduzione dei costi ed incremento dell’efficienza, pone quesiti nuovi al Diritto del lavoro, chiamato a ripensare se stesso.
Un simile processo presuppone però un fondamentale approccio di apertura culturale e propensione al cambiamento, nell’ambito della quale il giurista (e, in specie, il giuslavorista) non abbia il timore di sperimentare una proficua contaminazione tra saperi e competenze differenti, funzionale ad una più incisiva opera di rilettura e riscrittura delle regole del lavoro.
In ultima analisi, il giuslavorista è chiamato a misurarsi con un compito arduo:
«la sfida da affrontare nel contesto della digitalizzazione è se e come i processi lavorativi potranno essere regolamentati in modo da garantire il raggiungimento degli obiettivi tradizionalmente sottesi al diritto del lavoro» (M. Weiss, La platform economy e le principali sfide per il diritto del lavoro, in Dir. rel. Ind., 2018, 3, 717).
Articolo dell’Avv. Stefano Bini, Ph.D. Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro Università LUISS Guido Carli di Roma
Intelligenza artificiale: Out-Performance, licenziamenti economici e competenze