Le stagioni della vita: storia aziendale della moda firmata Gucci
Torna con la storia aziendale di Gucci la rubrica dedicata agli imprenditori italiani, a uomini e donne che hanno fatto la storia.
Era il 1921 quando Guccio Gucci apre la sua prima attività a Firenze. Eponima, questa era un negozio di selle e accessori in pelle per le corse a cavallo.
A portare però al successo la piccola bottega fu soprattutto la successiva produzione di articoli da viaggio, i quali nel corso degli anni produrranno una crescita non indifferente. A seguito di questo primo germoglio, dopo l’entrata dei figli Rodolfo, Aldo e Vasco nella società a conduzione familiare, l’azienda aprire sedi prima a Roma e poi a Milano.
La storia aziendale della moda firmata Gucci
La prima fioritura
Poco tempo dopo non tardano ad arrivare le prime fortune. Quella che tutti considererebbero una situazione più che avversa, diede la svolta decisiva al brand: durante il periodo fascista a causa delle sanzioni e delle guerre la pelle, essenziale nella produzione Gucci, non era facilmente reperibile. Furono così costretti ad una prima reinvenzione creativa e soprattutto alla ricerca di materiali più semplici e meno costosi; processo che poi ha portato alla prima stampa firmata Gucci, ad oggi famosa in tutto il mondo, in canapa chiara e diamantini color marrone scuro, simbolo più iconico dell’azienda.
La borsa icona di questo periodo aziendale fu però la Bamboo Bag, un accessorio costruito in maniera più tradizionale, ma con la caratteristica di avere il manico in bambù per fronteggiare le avversità del periodo.
Era ispirata a una sella di cavallo, divenne il simbolo dell’inventiva degli artigiani Gucci nel fronteggiare la scarsità dei materiali nel periodo direttamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Fu di un successo fuori dall’ordinario. Dava l’idea di un prodotto elegante, senza però dimostrarsi priva della capacità di sognare.
L’eleganza del particolare che accompagna un ambiente alto-borghese e di classe.
Nel 1945 la svolta dell’attività arriva quando Guccio Gucci decide
di esportare negli Stati Uniti. Fino alla sua morte nel 1953, inoltre, si affermano tutti i punti di forza che negli anni 70 hanno reso grande il brand e lo hanno reso capace di conquistare ogni cliente in tutto il mondo.
Capi di lusso, frizzanti, ma modesti, incredibilmente delicati, ma forti, vivi.
Tra i più famosi i mocassini, e il Foulard Flora.
Fino al 1993, anno della morte di Rodolfo Gucci l’impresa procedette attraversando alti e bassi. Visse sia quella che fu considerata la Golden Age, finita negli anni 70, che periodi più bui degli anni 80, difendendosi dalle avversità.
Quell’anno subentra nella direzione artistica lo stilista Tom Ford che cambierà radicalmente le regole del gioco.
Il sole bruciante: la transitoria estate di un marchio.
Nel periodo che arriva ai primi anni duemila, il fatturato dell’azienda schizza dai 230 milioni ai 3 miliardi di dollari.
La grandezza di Tom Ford come direttore artistico fu quella di capire cosa mancasse alla moda di quegli anni e permettere all’azienda di ruotare in quella posizione.
Furono anni di sensualità e sessualizzazione fortissima e a tratti veramente sfacciata. Scandali e potenza visuale corroborati da una vendita di merchandising a livello quasi mass-mediale, atto ad accompagnare le campagne d’alta moda.
L’altra grandiosa intuizione fu quella di costruire un mondo e delle prime grandi narrazioni attraverso i capi e le sfilate. In contrasto con la moda minimalista del tempo, Gucci ha adottato una politica “Sex sells” che nonostante ai tempi correnti ci sembri oltre che inflazionata e quasi offensiva, per il periodo che fu, ridiede vita al brand.
L’inverno
Nel periodo immediatamente successivo, all’uscita di Ford dal progetto, a causa di gravi problemi portati dal mercato finanziario la società si è trovata a fronteggiare dei consumatori che propendessero verso capi e prodotti di competitors più economici, provenienti dal mercato asiatico e mediorientale (in grande crescita).
Accostati ad una direzione artistica orientata al romanticismo e alla semplicità costruttiva, hanno portato la società in acque torbide, fredde e terribilmente turbolente nelle quali l’azienda ha tentato di vendere in maniera diffusa e svalutata i propri prodotti su un mercato saturo e stanco.
Questo fino alla rinascita.
L’Eterna primavera: Michele e la brand identity
L’ultima stagione del 2015 suggerisce uno sguardo profondo sull’importanza della direzione artistica nel brand positioning, ma soprattutto fornisce uno spunto di riflessione su come lo storytelling influisca nelle relazioni dei consumatori sul prodotto, che allo stato attuale è più solo un oggetto di lusso per sé stessi e per apparire, ma uno strumento etico, per posizionarsi socialmente.
Alessandro Michele, infatti, è stato in grado di concepire il concetto di moda nell’azienda, in modo tale che il brand stesso subisse una rivoluzione.
È stato in grado di includere nel processo di storytelling una serie di valori estrinseci e personali, in grado di conferire un carattere marcatamente culturale e ricco di riferimenti, tra i quali: il collezionismo, il cinema, la letteratura.
Il prodotto però, subita la metamorfosi, di modesto e borghese non ha più nulla, lo stile è eccentrico, eccessivo.
Il risultato è una serie di capi e accessori che così intimamente raccontati implicano, nella loro narrazione attraverso attori e modelli, una serie di valori che appartengono al brand e che verranno trasposte attraverso l’acquisto nelle politiche relazionali e sociali del consumatore.
L’universo dello storytelling che ha come vertice l’alta moda si traduce però non nella classica gara all’esclusività, quanto invece a una ricerca di una totale inclusività (per chiunque volesse investire in sé stesso, chiunque sia) come carta vincente per coinvolgere più persone possibili.
Venturini, che cura la parte commerciale collabora infatti con Michele e punta a tradurre il lato artistico in una forma spendibile di diffusione della cultura nata dal brand.
In questo senso Gucci mostra l’incredibile capacità nel corso di un secolo di ruotare l’intero processo aziendale verso la valorizzazione delle idee brillanti che lo portano nella posizione di icona della società, senza mai rinnegare però per davvero i propri veri tratti distintivi.
Si potrebbe dire che la capacità dell’azienda sia stata quella di trasformarsi e conoscere a fondo il senso del gusto del suo target in modo tale da esprimere se stessa anche attraverso stili diversi, sviluppando anche una certa maturità artistica (che a dire il vero è mastodontica) nel corso degli anni.
L’evoluzione del brand è sempre stata in funzione di cosa volesse comunicare.
A questo proposito il critico A. Riegl spiega che nel processo artistico, la produzione segue il concetto di KunstWollen (volontà dell’arte) per cui: ad un determinato periodo storico, corrispondono determinate necessità artistiche che tenderanno ad essere soddisfatte dalla produzione che cercherà di accontentarle.
Se per esempio nel periodo greco la funzione artistica era religiosa e quindi l’arte era figurativa e ontologicamente legata al divino, nel periodo romano le necessità erano ornamentali, e nel rinascimento naturalistiche (per questo il gusto era orientato verso lo studio prospettico, che come sappiamo, secoli dopo è stato completamente annichilito da, primo fra tutti, Paul Cezanne) e cosi dicendo fino le necessità teoriche del novecento.
Allo stesso modo se prima la comunicazione del brand verteva sul messaggio di un lusso dal gusto elegante e di classe, moderato, ma stravagante. 80 anni dopo l’importante fu, mantenuta la sua ricercatezza, non la moderazione, ma la libertà, l’inclusione. Il vivere etico di un marchio che nel suo senso più vero incarna la attualissima massima di oltre un secolo prima: ad ogni tempo un marchio, ad ogni marchio la sua libertà. (Non era cosi?)
E Voi? Cosa ne pensate dell’attuale politica sociale di Gucci?
💡 Questo articolo fa parte della Rubrica dedicata agli imprenditori italiani, a uomini e donne che hanno fatto la storia. Continua a leggerci per scoprire chi sarà il prossimo ad essere raccontato.
Oppure leggi la storia di Olivetti o di Minardi.
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