L’Europa fuori dall’Europa e l’Italia fuori dall’Italia: cosa significa Brexit per innovazione e startup?
L’Europa fuori dall’Europa e l’Italia fuori dall’Italia: cosa significa Brexit per innovazione e startup?
In numerose occasioni si è avuto modo di parlare, con ottimismo, degli sforzi del governo italiano per garantire investimenti in innovazione e sviluppo. Più volte si è messa a confronto la politica pubblica nazionale con quella degli altri paesi europei come Francia e Germania. Si è tentata, inoltre, una lettura in chiave di politica “europea”, soprattutto industriale (si v. qui e qui).
In questo articolo si ha l’obiettivo, innanzitutto, di indagare la posizione del Regno Unito in materia di startup, guardando all’Europa fuori dall’Europa con la scusa del divorzio Brexit. In secondo luogo, si intende presentare, in chiave critica questa volta, la politica per le startup e l’innovazione in Italia attraverso il confronto con gli altri paesi membri e le opportunità-minacce Brexit: ovvero, l’Italia fuori d’Italia (secondo l’espressione dello storico Braudel).
In particolare, nelle conclusioni, si metterà in evidenza l’importanza del capitale umano e della cultura imprenditoriale per l’innovazione.
L’Europa fuori dall’Europa: Brexit minaccia o opportunità per l’innovazione in Europa?
Qualche tempo fa, ascoltando la mia playlist youtube, mi capita una “pubblicità progresso” del governo inglese sulla possibilità di fare business nel loro paese. La pubblicità è ben fatta, ti viene voglia di investire proprio lì.
Qualche giorno dopo tento di ritrovarla, senza successo, ma seguendo alcuni link associati, scopro tantissimi altri spot e addirittura un canale youtube dedicato ai fondi governativi per prestiti e mentoring al doing business.
Mi imbatto anche in una mini-serie all’americana intitolata Disruptive Pitch, nella forma di un reality show, in cui i candidati presentano le loro idee di impresa innovativa e vengono giudicati da alcuni esperti sulla capacità di presentare con successo il progetto.
Tutto ciò invita a riflettere sull’importanza della comunicazione nell’implementazione delle politiche pubbliche e, nello specifico, sulla strategia del governo d’oltre Manica per favorire gli investimenti e l’ambiente imprenditoriale.
Oltre 4.200 imprese e 58 miliardi di dollari raccolti, l’equivalente dello 0,33% del Pil della Ue. A tanto ammonta il bilancio europeo delle “scaleup”, le imprese innovative e hi tech più mature rispetto alle startup, secondo il report 2017 ScaleEurope dell’associazione Mind the Bridge – Startup Europe Partnership.
Cosa emerge dall’indagine? Il mercato resta ampiamente dominato dal Regno Unito, capace di concentrare su di sé il 34% delle scaleup (1.412) e 20,2 miliardi di finanziamenti, una quota pari al 35% di tutti i capitali disponibili in Europa. (così il Sole24ore qui ma si v. anche qui)
Dopo due anni il centro d’eccellenza per l’innovazione è rimasto la città di Londra. In quanto città globale si caratterizza per la concentrazione di servizi finanziari e bancari, senza risentire dalla ristrettezza del perimetro urbano (secondo la definizione di “città mondiale” di Friedmann, 1970, e di “città globale” di Sassen, 1991).
Se ad esempio si prende lo sviluppo in settori come l’hi-tech, le startup muovono sì ingenti capitali, ma non occupano materialmente spazio; anzi, se e quando raggiungono la maturità e devono preoccuparsi dell’eventuale produzione, questa o viene esternalizzata oppure viene inglobata da altri “over the top” di settore.
A pensarci bene, anche la Silicon Valley è un territorio ristretto, ma è pur sempre la patria storica dell’innovazione a livello mondiale.
Si tratta, comunque, di casi in cui la globalizzazione è localizzata e la prossimità garantisce i benefici tipici della legge di vicinanza (secondo il sociologo G. Simmel): la rete di opportunità, menti ed idee è cioè virtuosa.
La concentrazione di capitali e servizi finanziari nella città globale ha, inoltre, effetti benefici sull’economia locale in settori paralleli e su luoghi geografici differenti; i capitali investiti, infatti, viaggiano lungo la filiera produttiva, così come il benessere di cui gode chi fa business di successo si ripercuote positivamente su consumi e investimenti (si v. E. Moretti nel suo libro La nuova geografia del lavoro).
Il governo del Regno Unito ha ben in mente questo circolo virtuoso
La c.d. Brexit, la consultazione referendaria del 23 Giugno 2016 che si è conclusa con una maggioranza del 51,9% dei votanti favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Ue, non sembra aver cambiato la politica inglese in materia di incentivi alle startup: il mercato del venture capital è dinamico e approdano a Londra molte imprese innovative europee, spesso dopo un primo lancio nelle città- capitali di origine.
A Giugno 2017 lo stesso Sindaco di Londra, ha annunciato l’apertura di un fondo di co-investimento di ben 25 milioni di sterline.
Brexit, dunque, al momento sembra non fare la differenza per il paese uscente, che è comunque in grado di attrarre investimenti e di indirizzare i risultati a suo vantaggio.
Cambia, invece, per l’Unione europea se non riesce ad essere competitiva, autosufficienti e, soprattutto, non in grado di orientare a proprio vantaggio i benefici territoriali dell’ecosistema startup.
Vista dal di fuori, grazie alla prospettiva Brexit, l’Europa e i suoi paesi membri hanno, quindi, una doppia sfida: da una parte, essere competitivi sul mercato globale in ricerca e innovazione; dall’altra, saper trarre beneficio per la restante parte del territorio degli effetti positivi locali, ma globali nelle città.
La prima sfida è giocata ad armi pari con il Regno Unito. Si tratta solo di vincere.
La seconda, invece, è terreno fertile per l’eurozona, grazie ai vantaggi del mercato unico. È ovvio, infatti, che l’estensione geografica degli spillover positivi, dipende dal contesto in cui questi si generano, ad esempio, uno stesso quadro istituzionale che facilita la circolazione di beni e servizi.
L’Italia fuori dall’Italia: la politica nazionale in ricerca e sviluppo nell’arena europea
La Brexit apre, dunque, un ventaglio di opportunità di riscatto per l’Europa e l’Italia.
Possono essere recuperati spazi economicamente strategici per l’economia nazionale, approfittando anche di condizioni agevolate che il mercato unico garantisce (uno dei settori di maggior interesse per l’Italia è quello della cyber security; c’è poi il made in Italy con moda e prodotti alimentari) e approfittando del momento per trovare soluzioni ad alcuni ostacoli (si pensi al dibattito sulla web tax nell’e-commerce e nella e- economy).
La Brexit potrebbe anche essere l’occasione per allargare i mercati dei paesi ad ovest verso l’Est dell’Europa, in direzione Russia (in generale, per una ricostruzione sulle implicazioni economiche di Brexit per l’Europa e l’Italia si veda qui).
Il fatto che Londra rimanga un hub di innovazione forte non vuol dire che nuovi centri non possano emergere nell’Europa a 27.
Così sta appunto accadendo per la la Francia e la Germania con Parigi e Berlino. Questi due paesi sono al secondo e al terzo posto, dopo il Regno Unito, per numero di scaleup mentre l’Italia è undicesima, dopo Svezia, Spagna, Olanda, Svizzera, Finlandia e Irlanda.
Come hub italiano di eccellenza per gli investimenti in innovazione si guarda a Milano; la città ha grandi potenzialità, ma questo significa lavorare non solo per la città-globale (nel senso di rafforzare il mercato bancario e del credito mobiliare, intervenendo sulla sua regolazione attraverso Consob e Banca d’Italia; la città potrebbe assumere un ruolo guida nel mercato finanziario europeo, soprattutto ora che il clearing sui derivati in euro dovrà spostarsi da Londra in zona euro), ma anche lavorare sulla città-reale ovvero infrastrutture, servizi, mercato immobiliare e city-management.
Se si continua nella lettura macro della realtà, è palese un grave deficit italiano. Nonostante gli sforzi del governo nazionale in questi ultimi anni, il sistema imprenditoriale fatica ad essere competitivo. L’innovazione è più che altro un miraggio.
Le startup che nascono in Italia sono piccole, hanno un capitale sociale quasi sempre sotto i 100.000 euro, fatturano poco e non si è capaci di verificarne la qualità in termini di R&S (una startup su sette si posiziona nell’hub milanese, segue poi Roma, Torino e Bologna; si v. qui).
Nonostante le risorse messe a disposizione a partire dal 2012, i venture capitalist italiani sono pochi. Il governo italiano investe oltre trenta volte meno della Gran Bretagna quando si tratta di aziende innovative (si v. qui).
L’Inghilterra della Brexit ha mosso 19 miliardi di euro negli ultimi 5 anni (dal 2012 al 2017), contro i 12 miliardi della Germania ed i 9 miliardi della Francia, alle prese con il nuovo programma di Emmanuel Macron per trasformarla in una “startup nation”.
In Italia i Venture Capital hanno mosso negli ultimi 5 anni appena 600 milioni di euro. (Il Sole24ore)
Questo, di conseguenza, vuol dire che le imprese devono rivolgersi all’estero, con il rischio di non essere abbastanza competitive per essere accelerate (poche ce la fanno, si v. Soldo e TrueLayer sull’arena londinese qui).
Oppure, si corre il rischio che la capacità imprenditoriale italiana, proprio come capitale umano, decida di iniziare direttamente all’estero pur se in Europa, di modo da poter sfruttare il mercato unico (ad esempio, c’è molto made in Italy nell’impresa innovativa francese, il che non è di per se un problema, se non fosse che in questo modo è il territorio d’oltralpe a beneficiare delle esternalità positive dei successi imprenditoriali; si v. qui per la startup francese GeoUniq, il cui fondatore è l’italiano Antonino Famulari).
Non mancano notizie, però, di multinazionali italiane, come Enel, che si fanno a loro volta venture capitalist in hub stranieri, come quello di Tel Aviv.
La domanda spinosa è:
chi e cosa rimane in Italia?
Conclusioni. La cultura imprenditoriale: cosa manca all’Italia?
Si possono fare previsioni differenti sugli effetti economici di Brexit nel futuro, sia sul Regno Unito sia sull’Europa, con scenari più o meno bui per l’uno o l’altro attore.
Per quel che riguarda gli investimenti in startup innovative, a quasi due anni dal “divorzio” tra Regno Unito e Ue ci si accorge che sul mercato globale degli investimenti, Londra rimane ancora una forza attrattiva per via della sua piazza affari, ma anche delle politiche pubbliche che il Governo inglese sta portando avanti per sostenere la forza attrattiva del proprio sistema.
Il Regno Unito può risentire, però, del rafforzamento all’interno dell’Eurozona di altri hub di innovazione che, sfruttando anche i benefici del mercato unico, possono coniugare servizi globali, servizi reali ed esternalità positive sugli altri settori e il resto del territorio.
L’Italia, tenendo in considerazione anche la pausa di arresto che subirà inevitabilmente per l’instabilità di governo, ha fatto degli sforzi negli ultimi anni. Essi appaiono, però, ancora insufficienti. Perché? È colpa di una politica pubblica mal fatta? Non è necessariamente così.
Gli investimenti in innovazione sono minori rispetto ad altri paesi, ma negli ultimi anni sono state fatte riforme nel senso di facilitare la nascita delle startup:
- a partire dal 2012 fino al co. 3, art. 57, d. l. n. 50/2017 che ha esteso la durata delle agevolazioni di cui godono le startup innovative da 48 a 60 mesi (5 anni );
- poi la legge di bilancio per il 2017 ha innalzato la soglia degli incentivi fiscali al 30% per chi investe in startup innovative; anche se la legge di bilancio per il 2018 ha poi escluso le detrazioni fiscali legate ai Piani Individuali Risparmio.
Pur se nuove startup ed imprese sono effettivamente nate, queste rimangono piccole e stentano a crescere. Parte del problema consiste probabilmente in una mancanza di cura per il capitale umano, per la cultura nel fare impresa, l’istruzione, soprattutto di terzo livello, e l’osmosi tra il mondo della ricerca e la sua applicazione.
Si tratta di aggiornare la cultura imprenditoriale italiana, aumentando la consapevolezza di come si può fare impresa oggi. E di come si può farla sul mercato globale, ma per il territorio locale.
Le domande a cui un giovane che vuole fare impresa innovativa, dovrebbe però trovare risposte sin da subito, cioè dall’università e a prescindere dalla facoltà, sono:
- Come da una mia idea posso creare impresa?
- Come presento la mia idea?
- Quale iter devo intraprendere?
- Come entro in contatto con il mondo dell’impresa?
- Come devo interagire con i potenziali investitori?
- A chi mi devo rivolgere?
- Quanto possibilità reale di successo ho?
- Verrò sostenuto dallo Stato?
- Posso portare avanti parallelamente studio e attività di impresa?
- Le attività possono essere sinergiche?
- Cosa succederà della mia impresa se avrò successo?
- Cosa implica una quotazione in borsa?
- Cosa significa localizzare un’impresa in Italia?
Esempi virtuosi per l’apprendimento dinamico sono, come visto in altri articoli, i modelli dei coworking sullo stile di Impact Hub o Talent Garden.
Anche in questo senso il governo italiano ha tentato alcuni passi in avanti; se ne è parlato in questo articolo sugli innovation hub e i competence center.
Sono però poche le startup che nascono direttamente nelle Università pubbliche perché scarsi i servizi e i progetti che, queste ultime mettono a disposizione dei giovani laureati (se ne è visto l’esempio per l’Università di Bologna con l’intervista a Cubbit).
Le riforme sono, quindi, ancora insufficienti. Occorre investire di più in istruzione e formazione, concentrare capitali in questi settori al preciso scopo di aumentare il valore della produzione delle startup, al momento talmente basso da scoraggiare qualsiasi politica pubblica di sostegno diretto e mirato all’innovazione attraverso di esse (per dati in questo senso si v. qui).
Auspicabile anche un intervento europeo più forte e coeso in materia di promozione all’innovazione, standard di ricerca e sostegno finanziario. L’Italia dovrebbe intanto imparare ad utilizzare con più efficienza i fondi diretti ed indiretti in R&S.
L’Europa fuori dall’Europa e l’Italia fuori dall’Italia: cosa significa Brexit per innovazione e startup?