I lavoratori dipendenti e i social: rischi e opportunità dell’urlato in “pubblica piazza”
È diventato fondamentale per un'azienda raccontarsi attraverso l'esperienza reale delle proprie persone. Dipendenti e social network: opportunità o rischio?
Personal branding e mondo legale: potrebbe essere un libro di successo se solo ci fossero predefinite risposte. Stiamo parlando, però, di un terreno minato: il confine “onlife” tra pubblico e privato, sempre più labile, con inevitabili connessioni tra vita e lavoro.
Un post su Facebook, ad esempio, non è un semplice pensiero di una persona e apre a tanti “dipende”: dipende da cosa ha scritto, dipende da dove l’ha scritto, dipende da qual è il suo ruolo, dipende dalle sue impostazioni delle privacy, dipende da chi lo legge…
Qual è il nostro argomento quindi: lo stretto legame tra la comunicazione e l’immagine delle persone, e gli impatti sul business e sull’organizzazione, partendo dalla constatazione che i media più credibili per ogni azienda sono le persone stesse.
Un articolo scritto in collaborazione con Luca Furfaro
(qui trovi la sua pagina autore)
L’opportunità per le aziende di raccontarsi attraverso le persone
C’è sempre più consapevolezza di come la comunicazione delle proprie persone sia diventata uno dei principali elementi per costruire l’identità di marca e, soprattutto con i social network, un fattore decisivo per raggiungere il vantaggio competitivo.
È diventato fondamentale per un’azienda mostrarsi e, soprattutto, raccontarsi attraverso l’esperienza reale delle proprie persone.
I candidati oggi, come i clienti, vogliono vedere e avere quanti più dettagli possibili perché vivono in un’era in cui in qualsiasi momento, con qualsiasi strumento, si possono trovare informazioni, opinioni, foto, video, esperienze…
Le persone non cercano una comunicazione fredda e distaccata, perché sono abituate ad una voce social umana e friendly – piuttosto che formale e/o ultra professionale -, che racconta fatti attraverso l’esperienza reale, senza filtri.
Il web spinge sempre di più a raccontare le esperienze, il passaparola continua ad essere tra i canali ritenuti maggiormente attendibili e i social network permettono di amplificarlo.
Allo stesso tempo, le persone raggiunte dai social network dai dipendenti sono oltre dieci volte più numerose dei follower di un’azienda e se anche solo il 2% dei dipendenti condivide i contenuti social dell’azienda, questa percentuale genera il 20% dell’interesse complessivo sui social media.
I benefici del loro coinvolgimento, in termini di reputazione, sono quindi evidenti: aumentano la conoscenza e la fiducia nei confronti dell’azienda e i dipendenti si sentono più protagonisti e quindi vivono con più soddisfazione il ruolo.
Come la condivisione dell’esperienza delle proprie persone può essere un vantaggio, allo stesso tempo, può diventare un rischio.
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Si potrebbero citare diversi esempi, negli ultimi anni.
Ad esempio il post dei dipendenti di una nota catena di supermercati e ipermercati, in posa per un selfie con un agnello appena macellato con un ciuccio in bocca. Una foto ricordo per Natale di pessimo gusto che in poco tempo divenne virale su internet, creando notevoli problemi all’azienda.
Come si potrebbero citare casi di alti dirigenti oscurati da Facebook per dei post “spericolati” pubblicati sui social network (auguri al duce, commenti su persone di colore), che hanno fatto parlare di sé anche sui giornali, richiamando l’attenzione dell’azienda a ragionare sull’accostamento ai valori e all’etica.
Ciò che vogliamo sostenere è che lo scenario sta rendendo nelle aziende sempre più protagonisti – di vantaggi e svantaggi – i Brand Ambassador, ossia coloro che attraverso la comunicazione spontanea raccontano un brand, quindi l’azienda che vivono e se ne fanno portavoce diretti o indiretti.
Quello che sta accadendo è che con la loro comunicazione, anche informale e a volte inconsapevole, davvero tutti i dipendenti sono diventati portatori del racconto aziendale.
Proprio per queste ragioni è diventato fondamentale per le aziende pensare ad azioni di diffusione culturale sui temi social e digitali; progettare veri e propri percorsi per le proprie persone, finalizzati a tutelare l’immagine dell’azienda e incrementare l’innovazione. Iniziative pensate per far comprendere a tutta la popolazione aziendale il peso e il valore delle loro parole e della loro immagine.
Ma arriviamo al tema più spinoso, con l’esperienza di Luca Furfaro dal punto di vista più propriamente legale.
Come mettere d’accordo personal branding e mondo legale. Luca Furfaro.
In ogni caso occorre valutare l’impatto che alcuni comportamenti “social” possono avere sul proprio rapporto lavorativo ai fini disciplinari.
Per quanto sia vero che il lavoratore, nel momento in cui decide di pubblicare qualcosa sui social, beneficia dell’art. 21 della nostra Costituzione, per cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, occorre anche ricordare però l’obbligo di fedeltà previsto per il lavoratore dipendente dall’articolo 2105 del codice civile:
Il prestatore di lavoro non deve … divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Tra i mezzi di diffusione garantiti costituzionalmente rientrano i social network, ma allo stesso modo sono possibili ambiti nei quali valutare lealtà, fiducia e fedeltà del lavoratore.
È ormai consolidato l’orientamento con il quale si prevede che condotte disdicevoli dei lavoratori, sebbene assunte nella vita privata extra-lavorativa, possano far venir meno il rapporto fiduciario con il datore di lavoro a causa dell’oggettiva o potenziale inaffidabilità a proseguire nel ruolo e mansioni rivestite in azienda.
Per quanto normalmente tutti i comportamenti facciano riferimento ad un regolamento disciplinare, e per quanto sia più che opportuno formare i lavoratori sulla consapevolezza nell’utilizzo dei social, non è obbligatorio aver catalogato le condotte sanzionabili.
Difatti è oramai nota a livello giuridico la nozione del cd. “minimo etico”, ossia una serie di comportamenti non codificati, ma minimi in una società che voglia considerarsi civile e rispettosa di regole, anche non scritte, idonee ad assicurare una normale convivenza.
Giuridicamente possiamo vedere i social network come vere e proprie “piazze” (escluse quindi anche da tutele art.4 Statuto dei lavoratori). Per tale motivo anche per il Garante della Privacy è legittimo l’uso a fini disciplinari da parte del datore di lavoro, di ogni espressione di pensiero pubblicata sui social network dal proprio dipendente.
Non dobbiamo pensare solamente ad affermazioni pubblicate, ma anche a “like” o commenti su articoli o esternazioni di altri utenti.
Operativamente il datore di lavoro potrà effettuare una valutazione sui comportamenti tenuti dal lavoratore sui social network, per capire se gli stessi abbiano leso o meno, sotto il profilo disciplinare, il rapporto fiduciario.
Nel caso in cui si ravvisi un comportamento lesivo il datore effettuerà una valutazione su:
- inquadramento del lavoratore;
- visibilità della figura esternamente;
- competenze professionali e riconoscibilità esterna dell’appartenenza all’azienda;
- ruolo e mansioni;
- modalità d’uso del social network;
- limitazioni della privacy;
- contenuti e stile della comunicazione.
A tale valutazione seguirà naturalmente un procedimento disciplinare, con possibilità di giustificazione del lavoratore, ed eventualmente l’erogazione della sanzione che potrà arrivare anche sino all’espulsione.
Il principio di gradualità per i provvedimenti disciplinari
Naturalmente per i provvedimenti disciplinari occorre applicare un principio di gradualità, in relazione alla gravità o recidività della mancanza o al grado della colpa; è inoltre questione nota, come la mancanza di proporzionalità possa portare a dichiarare illegittimo l’eventuale licenziamento.
È quindi molto importante la fase di valutazione della portata e delle condizioni che hanno generato il provvedimento, tenendo anche in conto quelli che sono gli orientamenti della giurisprudenza più recente.
Ad esempio, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito che le critiche offensive del lavoratore postate sulla propria bacheca Facebook creano un grave danno all’immagine aziendale, ed hanno natura diffamatoria tale da giustificarne il licenziamento.
Con una successiva sentenza (n. 1379 del 18.01.2019) la stessa Corte ha anche affermato che la critica avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore sfocia in un illecito disciplinare nel caso in cui la stessa non rispetti i requisiti della verità, continenza e pertinenza.
È quindi necessaria l’attenta valutazione del come, del dove, e del cosa esce sui social network, comprendendo in ogni caso che quello che viene scritto deve essere inteso come urlato in pubblica piazza.
Qualcosa urlato in pubblica piazza, darebbe fastidio al nostro datore di lavoro?
I lavoratori dipendenti e i social: rischi e opportunità dell’urlato in “pubblica piazza”