Perché sviluppare una cultura del fallimento fa bene all’azienda?
Per innovare bisogna sperimentare; insegnare la cultura del fallimento in azienda aiuta ad abbracciare l'innovazione e il progresso.
In ambito imprenditoriale si sente spesso parlare di cultura del fallimento. È una locuzione che, al solo sentirla o leggerla, non sembra essere affatto qualcosa di positivo. A prima vista potrebbe addirittura apparire come un modo per giustificare gli insuccessi, rischiando però di tralasciare i numerosi benefici che un giusto margine di errore può apportare al singolo lavoratore o imprenditore, ma anche all’intera azienda.
Vediamo dunque qual è il vero significato di questa espressione e quali sono i suoi vantaggi all’interno del sistema lavorativo.
Cos’è la cultura del fallimento?
Spesso si tende a semplificare la cultura del fallimento con il concetto di “sbagliando si impara”. Gli insuccessi, per forza di cose, sono una parte integrante dell’esperienza lavorativa. Celebri imprenditori, prima di raggiungere grandi obiettivi, hanno combattuto contro uno o più incidenti di percorso, o addirittura hanno volontariamente abbracciato una situazione di apparente fallimento da cui, in realtà, essi hanno avuto modo di rinascere.
“Il fallimento e l’innovazione sono gemelli inseparabili. Per innovare bisogna sperimentare, e se si sa in anticipo che le cose andranno bene non è una vera sperimentazione.”
Jeff Bezos
Queste sono le parole di Jeff Bezos, fondatore e CEO di Amazon. La sua storia è piuttosto celebre: laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Princeton, intraprende subito la sua carriera che porta avanti per qualche anno. I sogni di gloria e la voglia di sperimentare, però, sono molto più forti. Nel 1993, dal proprio garage di Seattle, nasce Amazon.com, libreria online destinata a diventare la più grande società di e-commerce al mondo.
Questa scommessa di Bezos lo porta a ricoprire molti altri ruoli; come sappiamo, è attualmente fondatore e amministratore delegato di Blue Origin e proprietario del Washington Post.
Questo può essere un classico esempio di imprenditore a favore del rischio e dei conseguenti e possibili errori prima di raggiungere un certo livello di successo e soddisfazione. Jeff Bezos, infatti, è proprio uno dei principali promotori della cultura del fallimento: gli insuccessi sono da mettere sempre in conto in un nuovo percorso lavorativo ed imprenditoriale in quanto parte integrante, necessaria ed inevitabile di qualsiasi progetto, dal più semplice a quello più grandioso.
A questo punto la missione di ogni imprenditore sulla scia di Bezos è quella di trasmettere questo messaggio ai propri dipendenti. Essi, dunque, sono formati all’interno di questa particolare visione del concetto di errore, con lo scopo di incentivare il miglioramento personale.
Perché la parola “fallimento” spaventa?
Da un punto di vista prettamente sociale, la parola “fallimento” costituisce quasi sempre una macchia indelebile sul percorso lavorativo ed imprenditoriale. Se ci guardiamo intorno e osserviamo i nostri colleghi puntare sempre più in alto, probabilmente diamo erroneamente per scontato che essi abbiano raggiunto i propri obiettivi serenamente e senza inciampi.
Questo accade perché la società odierna rischia spesso di trasmettere un messaggio incorretto e un’immagine sbagliata di buon lavoratore. Il successo sembra essere sempre più il frutto della perfezione. La promozione di una giusta cultura del fallimento serve proprio a sradicare questa accezione negativa e ad incoraggiare imprenditori e dipendenti a non lasciarsi trascinare dalla potenza che questa parola esercita sull’essere umano.
Perché bisogna fare questo? Perché molti imprenditori, coloro che non aderiscono a questa linea di pensiero, danno un’interpretazione sbagliata alla stessa idea di cultura del fallimento.
A tal proposito, è sempre buono e giusto analizzare anche l’altra faccia della medaglia. Ce ne parla l’imprenditore G. Luca Propato:
“sbagliando s’impara” non è altro che la favoletta che gli imprenditori raccontano a loro stessi e ai propri dipendenti per alimentare una sorta di falsa speranza. Non si tratta di un passaggio transitorio, ma di un vero e proprio punto di non ritorno.
G. Luca Propato
Volendo dare un attimo per buona questa idea, viene naturale trarre un’ulteriore conclusione, ossia quella secondo cui basterebbe un unico e basilare errore per dichiarare il fallimento totale, e sappiamo che non è esattamente così. Nell’ambiente lavorativo – come in qualsiasi altro – non esiste il concetto di “nero e bianco”. È importante tenere a mente che, in questo campo, si agisce entro alcuni limiti e, dunque, in una zona grigia.
Il concetto di margine di errore è fondamentale per non superare quei limiti oltre i quali si cadrebbe in uno dei due eccessi: la perfezione o, di contro, la sconfitta definitiva.
La favola di cui parla Propato è l’immagine dell’imprenditore che raggiunge il massimo successo all’ennesimo tentativo, quasi come fosse un processo spontaneo che si ripete sempre allo stesso modo. Ciò non coincide neanche un po’ con il vero concetto di cultura del fallimento, volta non a raccontare fandonie bensì ad insegnare ad inquadrare il proprio errore per poter rivalutare una certa situazione in maniera più consapevole.
Quali sono i benefici della cultura del fallimento?
Crescere in un ambiente in cui l’errore e lo sbaglio sono inammissibili non può far altro che compromettere la resa finale. Lavorare sotto la pressione del raggiungimento della perfezione – pur sapendo che questa non esiste – non può far altro che condizionare il processo lavorativo, portando sicuramente più svantaggi che vantaggi. Sapersi concedere qualche sbaglio, al contrario, crea un clima totalmente diverso, aprendo strade ulteriori.
Quali sono, dunque, i reali benefici? Innanzitutto saper gestire un certo grado di errore incoraggia la generazione di nuove idee e l’accettazione di rischi e di eventuali insuccessi pur di portare avanti un progetto. Con il tempo la cultura del fallimento permette di acquisire maggiori criteri di scelta, riuscendo ad eliminare fin da subito progetti poco promettenti.
La cultura dell’errore, dunque, da questo punto di vista riesce a formare imprenditori e dipendenti, donando un certo livello di esperienza. I fallimenti costituiscono, inoltre, un inevitabile feedback tramite il quale il lavoratore può migliorarsi e scegliere nuove strade per raggiungere i propri obiettivi. Questa serie di benefici permetterà, a un certo punto, di ridurre sempre più il fatidico margine di errore.
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La cultura del fallimento in Italia
C’è da dire che molto spesso si prendono esempi internazionali, soprattutto americani. È chiaro che la situazione nel nostro Paese sia alquanto diversa. È importante, però, cercare di distaccarsi da tutta una serie di preconcetti che, come già accennato, sono dettati perlopiù dall’accezione negativa che la società incolla all’idea di fallimento.
Chi sono i nuovi promotori italiani di questa cultura?
Francesca Corrado, ex insegnante universitaria, ha fondato la Scuola di Fallimento nel 2019. Dal suo portale autobiografico possiamo apprendere le motivazioni che hanno spinto questa donna alla creazione non solo di una scuola, ma anche, e soprattutto, di una chiara linea di pensiero.
Sembrerà banale, ma trattandosi di un’ex sportiva a livello agonistico c’è da aspettarsi un carattere competitivo e che tenda a puntare sempre più in alto.
“Ho sempre avuto la presunzione che in un modo o nell’altro tutto sarebbe andato bene se avessi seguito il mio istinto. […] Ho sempre cercato, fallendo, di aspirare alla perfezione. […] Ad un certo punto della vita comprendi però che la perfezione non solo non esiste, ma che in fondo la perfezione è noiosa e che l’unica cosa che conta è agire e aspirare a fare oggi meglio di ieri.”
Francesca Corrado
Queste parole di Francesca Corrado sono il punto di partenza per questo grande progetto che è la Scuola di Fallimento. I dati parlano chiaro: sono state raggiunte finora 10.600 persone e 88 aziende, con un numero totale di 132 workshop.
Quali sono i suoi principali obiettivi? Imparare dai propri errori e riuscire ad analizzarli, sviluppare un pensiero critico e allenare la flessibilità cognitiva, skills che possiamo aggiungere a quei benefici che già conosciamo.
Francesca Corrado, a tal proposito, ha anche scritto e pubblicato due libri: “Elogio del fallimento”, Best Seller Amazon nel 2019, ristampato con il titolo “Il fallimento è rivoluzione”.
Quella di Corrado è solo una delle tante esperienze dirette che dimostrano che, anche in ambito nazionale, il percorso volto a non demonizzare gli insuccessi è necessario e funzionale per il raggiungimento di obiettivi personali e collettivi.
Perché sviluppare una cultura del fallimento fa bene all’azienda?