Smart Working: Pubblica Amministrazione e aziende private a confronto
Il convegno promosso da AIDR, tenutosi a Roma il 5 Dicembre scorso, è stato l’occasione per mettere a confronto due mondi che, su binari paralleli e con risultati differenti, stanno sperimentando e/o attuando pratiche di lavoro agile: la Pubblica Amministrazione e il settore privato.
Il confronto tra pubblico e privato risulta essere indispensabile ai fini della contaminazione e, per cercare di comprendere come poter intervenire sulla forte resistenza al cambiamento e tendenza alla conservazione da parte del settore pubblico di fronte all’innovazione.
Marco de Giorgi, Dirigente dell’Ufficio per la valutazione della performance del Dipartimento della funzione pubblica, sostiene che sia necessario fare chiarezza su cosa non è Smart Working:
- Non è una parola sostitutiva del concetto di telelavoro (per approfondire il concetto leggi questo articolo);
- Non è un premio per i dipendenti;
- Non è un istituto per persone deboli e vulnerabili;
- Non è solo per donne che devono accudire i bambini;
- Non è solo per gli over 50 che assistono genitori o che sono nonni.
Come fare a creare nel settore pubblico un ambiente aperto rispetto i temi dell’innovazione?
È necessario far comprendere che Smart Working non è solo conciliazione del tempo lavoro-famiglia, ma uno strumento di miglioramento della produttività e delle performance della funzione pubblica, che rappresenta un indicatore sintomo di attenzione verso i processi di innovazione.
Come partire concretamente con dei piani di azione?
Nel caso specifico del Dipartimento della funzione pubblica, si è deciso di intervenire sui Dirigenti pubblici che avranno il compito di promuovere lo Smart Working e la cittadinanza organizzativa, stimolando comportamenti che abbiano alla base fiducia, senso di appartenenza, autonomia, flessibilità e sviluppo di competenze tecnologiche.
Flavio Siniscalchi, Direttore Generale Ufficio V Risorse Umane del Dipartimento Protezione Civile, racconta dell’esperienza di sperimentazione in atto: 700 persone, 30 sono attualmente in Smart Working e, sulla base di un’indagine interna, l’indice di gradimento è pari al 94%.
I limiti riscontrati nell’avvio del percorso legato allo Smart Working non sono però a suo avviso solo culturali, ma anche relativi agli investimenti legati all’innovazione, per i quali non è previsto – a norma di legge – un budget.
Come si fa allora a mettere in campo misure di innovazione con gli strumenti ad oggi disponibili?
C’è bisogno di un assetto tecnologico importante che permetta di elaborare progetti individuali di Smart Working e che permettano al lavoratore pubblico di ripensare il proprio ruolo anche alla luce di un nuovo approccio al lavoro. È quindi indispensabile individuare dei chiari meccanismi di valutazione del merito ed elaborare piani individuali che consentano di rispondere a domande tipo “come sarò monitorato?”, “quali sono i miei obiettivi?”.
Cristiana Luciani, Funzionario garante per la protezione dei dati personali, a tal proposito interviene sottolineando quanto nel comparto pubblico il nodo principale sia rappresentato dalla mancanza della cultura della valutazione del progetto.
Tanti sono stati gli interrogativi che nel suo Dipartimento non hanno consentito l’avvio di progetti sperimentali relativi al lavoro agile e che ad oggi, sono in fase di pre-accordo sindacale. Tra gli interrogativi, le riflessioni su:
“Che tipo di controllo non lede il lavoratore? Quando sono collegato a strumenti aziendali, cosa protegge i dati personali? Se mi collego a degli strumenti aziendali, durante il tempo in cui sono online, cosa faccio?”
Forte la provocazione lanciata da Romano Benini, Professore di Sociologia del Welfare presso Link Campus University di Roma, che ricorda quanto nel pubblico, “ciò che non si trasforma in documenti non esiste”. Per questo motivo, un sistema improntato sul lavoro per procedure, rigido, non ancora completamente dematerializzato, con strumenti informatici diversi in ogni regione italiana, estremamente disarticolato, non può valorizzare la cultura dello Smart Working.
È fondamentale il cambio di mentalità e del modo di essere del dipendente pubblico. Nel privato, guida il profitto e la pressione del mercato; nel pubblico, manca la bussola del profitto ed è necessario individuare una batteria di indicatori che lo sostituiscano e siano oltremodo efficaci (un esempio potrebbe essere la soddisfazione del cliente).
Sergio Alberto Codella, Avvocato giuslavorista e Segretario Generale AIDR, richiama a sintesi partendo da una domanda: pubblico e privato sono davvero così diversi?
A suo avviso, non è così poiché la resistenza al cambiamento è un atteggiamento presente anche nel privato, se pensiamo alla cultura manageriale. La legge del 2017 ha sancito una vera e propria rivoluzione copernicana poiché, ha consentito al lavoratore di stringere un patto con il datore di lavoro.
Fa presente che lo Smart Working non è un punto di non ritorno e che si possono apportare delle correzioni al modello, motivo per il quale ad oggi, parliamo ancora di sperimentazione. Il tema del controllo fa paura a tutti, ma il vero cambiamento è quello di superare questo modo di intendere il lavoro e soffermarsi su quanto il concetto di performance ed il raggiungimento della stessa, rappresenti il minimo sindacale e il minimo comune denominatore per raggiungere veri risultati sia nel pubblico che nel privato.
A questo intervento si aggancia Manuela Conte, Capo stampa rappresentanza in Italia della Commissione Europea a Bruxelles, presentando uno spaccato di quello che accade in Europa, in cui lo Smart Working non è una novità, lo chiedono tutti e si concede a tutti.
Il rovescio della medaglia è che oggi, un lavoratore in Smart Working non stacca mai, è sempre connesso, sempre disponibile, non riesce a gestire professionalmente il vantaggio di essere lontano dall’organizzazione e fatica a gestire l’isolamento (per approfondire consiglio di leggere I rischi dello Smart Working: 3 problemi e 3 soluzioni).
La voce del mondo privato, inizia con l’intervento di Filippo Busceti, Head of HR presso Ferrero, e con la notizia che, dopo due anni di sperimentazione di Smart Working, oggi questa forma di lavoro agile è normata nel contratto integrativo aziendale.
Per Ferrero ha rappresentato una forma di lavoro responsabile, ha favorito il work life balance e arginato le difficoltà legate al pendolarismo (parliamo di 900 dipendenti che nel 2019 saranno tutti in Smart Working, fatta eccezione per le linee produttive che “non potranno cucinare la Nutella col pentolino a casa”).
Ha funzionato perché il rapporto di lavoro è stato basato sull’unico vincolo di fiducia, su poche regole, ma precise (es: se a casa non hai adsl non puoi essere lavoratore Smart Working) e su un percorso di formazione e indagine continua attraverso analisi e questionari.
Come si fa in Italia ad impostare un rapporto di lavoro basato sul tema della fiducia?
“Non c’è alcun metodo alternativo se il controllo fisico non è possibile”, sostiene Giovanna Bellezza – Responsabile delle Relazioni Industriali – Telecom Italia S.p.A, in cui l’esperienza nata nel 2015 (prima ancora della legge che sancisse il lavoro agile) è stata positiva e graduale: ad oggi 21 mila dipendenti hanno fatto richiesta di Smart Working e 13 mila lo applicano effettivamente.
Si è ragionato sul fatto che lo Smart Working richieda un’analisi delle abitudini lavorative e che non tutti vogliano effettivamente avvalersene. I maggiori risultati ottenuti sono una parcentuale equamente distribuita tra lavoratori uomini e donne, un maggiore profitto nelle performance, un numero ridotto di assenze per malattia, la risoluzione del problema della mobilità (è possibile lavorare da sedi più vicine alle abitazioni e non necessariamente nella sede di riferimento assegnata).
Sono stati risparmiati 4 milioni di chilometri e 660 tonnellate di Co2. Inoltre, è stato riscontrato che i lavoratori in Smart Working sono molto più orientati al digitale di altri.
Come traghettare le persone attraverso percorsi complessi di cui lo Smart Working è solo un tassello?
Cristina Fioravanti, Responsabile Formazione e Risorse Umane ASviS, parla dell’impresa come “scatola chiusa” al cui interno sono inclusi processi, controlli, persone e luoghi fisici.
Nuovi elementi, tra cui l’adozione di pratiche di lavoro agile, hanno fatto aprire la scatola e concentrare su nuovi temi quali: l’impatto ambientale e tecnologico, il ripensamento degli spazi di lavoro e l’analisi di nuove esigenze per lo sviluppo di nuove professioni.
Per questo, sulla base del “prendersi cura” delle persone facenti parte di un’organizzazione, sia essa pubblica o privata, fondamentali saranno gli investimenti in formazione, promozione e sviluppo delle nuove competenze e stili di leadership, al fine di trattenere talenti ed essere competitivi nel tempo sia in azienda che nel sistema paese.
Fondamentale sarà il supporto della struttura manageriale, sostiene Daniele Eleodori, Direttore Risorse Umane della fondazione Telethon Ente Ricerca, in cui lo Smart Working va a braccetto con la Smart Organization, ovvero un’organizzazione pronta a trasformare i sogni ambiziosi in veri e propri progetti e fondata su un sistema di Performance Management per obiettivi, flessibilità, evoluzione digitale e fiducia.
Se quindi fino a ieri i nemici dello Smart Working erano considerati il sindacato, il middle management, la lentezza delle PA, i piccoli imprenditori delle aziende familiari, oggi abbiamo il compito di investire sul tema della trasformazione culturale prima ancora di parlare di quella digitale, sia che si parli di pubblico che di privato.
La rivoluzione, è in atto e sarà interessante monitorarne gli effetti.
Smart Working: Pubblica Amministrazione e aziende private a confronto