New Ways of Working

Ma lo Smart Working è davvero tutto qui?

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Ma lo Smart Working è davvero tutto qui?

Nell’ultimo periodo a Milano ci sono stati due eventi in cui si sono tirate, più o meno direttamente, le fila dello Smart Working in Italia; portando i primi risultati di sperimentazioni e progetti, sia aziendali che di rete: parlo di (Smart) Work in Progress organizzato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano e di ShareItaly.
In entrambi i casi ho ascoltato tante parole che, cartesianamente, mi hanno fatto riflettere sul mio essere così attratta dal lavoro agile.
Parto dai dati, secondo cui le principali tre leve nelle iniziative di smart working sono:

  • il lavoro saltuario a casa (90%)
  • la flessibilità di orario lavorativo (73%)
  • il lavoro saltuario presso altre sedi aziendali (54%).

 
In seguito leggo che i primi tre aspetti misurati delle iniziative di smart working sono:

  • la soddisfazione rispetto all’iniziativa (77%)
  • l’utilizzo dello strumento (77%)
  • il livello di engagement (64%).

 
Poi si analizzano i benefici in generale che si possono riassumere in:

  • tempo risparmiato al giorno
  • diminuzione di malattie e permessi richiesti
  • risparmio della CO2.

 
Se, infine, ci si concentra sui driver che portano all’introduzione dello smart working compaiono:

  • la flessibilità di luogo
  • le policy di flessibilità oraria
  • la riprogettazione del layout fisico.

 
Sono sicuramente dati importanti, ma continuano a stridere nella mia testa mentre ascolto Silvia Zanella a ShareItaly parlare di un futuro del lavoro che si avvicina e di una nuova concezione del lavoro che fa capolino.
 

Siamo sicuri di aver preso la direzione corretta?

Perché a leggere questi dati io ci vedo poco smart working, e tanto allargamento del telelavoro.
C’è chi dice che quando si ha un dubbio su qualcosa, bisogna rileggerne il significato partendo dalle parole.
Smart significa sveglio, brillante, intelligente, astuto e agile, si riferisce a qualcosa che si muove o dà l’impressione di muoversi con elasticità e sveltezza; che possiede tali qualità.
Insomma, che si chiami smart working o lavoro agile, sembra che abbia più a che fare con i modi più che con i tempi e i luoghi.
Lo so che si è fatta tanta strada, anzi tantissima, ma più sento parlare di smart working ai convegni, sui giornali, nei dibattiti e più il mio pensiero è che non può essere tutto qui.

Dove starebbe tutta questa rivoluzione? Questa innovazione?

È come se continuassi a guardare un puzzle in cui manca il pezzo centrale, di cui quindi non riesco a comprendere le forme.
Gli investimenti in tecnologia fatti ad oggi si sono concentrati sugli strumenti per un lavoro da remoto, e gli studi sui processi lavorativi si sono limitati a guardare come poter svolgere alcune attività al di fuori dei locali aziendali.
Ma l’apporto del digitale non può essere così riduttivo.
Le funzioni HR si sono concentrate sulla flessibilità oraria e sulla valutazione delle performance trascurando, spesso quasi totalmente, lo studio dei processi di lavoro con un focus sulla loro ottimizzazione.
Mentre chiunque abbia lavorato in azienda sa perfettamente che ci sono attività ridondanti, procedure lunghissime e spesso poco funzionali, che si esauriscono nella loro espletazione più che nella loro finalità.
Che c’è uno spreco di tempo e risorse per svolgere attività a bassissimo valore aggiunto sia nei confronti di chi le svolge, che in quelli dell’utente finale e non potrebbe esistere qui una ben più intelligente applicazione del lavoro agile?
Tra tutti i casi riportati dall’Osservatorio mi ha colpito il caso di R&P Legal un piccolo studio legale e tributario con 6 sedi e più di 170 professionisti.
Qui l’avvicinamento allo smart working è nato da un’esigenza di business: “rispondere in tempi rapidi alle richieste dei clienti offrendo un servizio più efficace” e l’obiettivo raggiunto ad oggi è quello di “velocizzare i ricircoli interni”.
Non sono state fatte grandi modifiche: è stata adottata una modalità digitale per svolgere un compito che prima veniva svolto in presenza, ma l’approccio, a mio parere, è davvero smart: ci si è interrogati su come cambiare un processo che forse non rispondeva più alle esigenze del mercato attuale, rendendolo più agile e quindi più efficiente.
Se è vero che il mondo del lavoro sta cambiando, allora deve modificarsi il suo stesso essere oltre che la sua modalità di azione.
La vera innovazione potrebbe essere nel rendere agili alcuni processi che, conseguentemente, libereranno del tempo ai lavoratori, che potranno reinvestirlo come meglio credono (per altro pare che la maggior parte del tempo guadagnato dai lavoratori facendo smart working venga reinvestito in lavoro per l’azienda, cosa di cui ancor non mi capacito), migliorando il tanto agognato work-life balance.
Ci sono due messaggi di speranza su queste tematiche, come si evince anche dai “cantieri” di cui parla l’Osservatorio sullo SW: l’Internet of things e l’industria 4.0, che alle mie orecchie oggi risuonano come le profezie di futuro imminente degli episodi di “Ai confini della realtà” che guardavo da piccola.
 
Siamo solo agli inizi, ma penso che sia questo il vero smart working: digitalizzare i processi, evolvere le professioni, includere in questo processo anche i mestieri che, a prima vista, sembrano non poter rientrare in questa trasformazione.
Forse è questa la vera sfida del lavoro agile, e forse è per questo che chi tanto ci ha creduto fin dall’inizio fatica ad essere soddisfatto di questi piccoli, timorosi, primi dati.

Ma lo Smart Working è davvero tutto qui?

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