Personal branding e professional branding: tanti io per un grande noi e ripartire sul lavoro
Cosa significa fare personal branding? E fare Professional Branding? Tanti io messi insieme per fare un grande noi e ripartire sul lavoro.
Personal Branding: parola sulla bocca di molti ma di cui pochi in realtà comprendono il valore appieno. Un tema approfondito nel sesto appuntamento delle Digital Awareness Breakfast, la serie di colazioni consapevoli disegnate attraverso un progetto educativo e divulgativo a cura di ELIS e Digital Attitude, e promosse nell’ambito dell’iniziativa Repubblica Digitale.
Il tema guida di tutti i webinar è quello del change & adoption di nuovi strumenti che possono e devono condurre le organizzazioni, e quindi ogni persona che ne fa parte, verso un nuovo mondo del lavoro, il Digital Workplace, caratterizzato da un approccio phygital, in termini di coinvolgimento delle persone, e unconventional, negli strumenti e nelle piattaforme di learning & training.
Un dibattito interattivo molto interessante che ha visto la partecipazione al tavolo virtuale degli speaker Filippo Poletti (Giornalista, “Top Influencer” di LinkedIn Italia), Simona Menghini (Communications Director – Oracle Italia) Valentina Marini (Competence Leader Digital HR Innovation – ELIS), moderati da Francesco Pozzobon (Changemaker, Head of Sales & Marketing – Digital Attitude) e Chiara Pirone (Digital HR & Communication Consultant – ELIS).
“Queste colazioni sono nate con l’obiettivo di approfondire insieme temi di co-innovazione e change management. Oggi respiro un po’ di “felicitudine”, argomento affrontato nello scorso appuntamento, perché dopo tanto tempo, siamo davanti a un periodo affascinante in cui si avverte il dovere di lasciare un impatto positivo che si esprime con parole, idee, pensieri che si instaurano nelle relazioni con gli altri” queste le parole con cui Francesco ha aperto la piazza di incontro tra le Community.
Rivedi la Video Spremuta con Francesco Pozzobon a tema change management, digital collaboration e smart working.
Personal Branding: cosa significa fare il marchio personale?
“Desidero partire dalla parola “persona” che i latini utilizzavano per indicare la maschera scenica scolpita nel legno. Il nostro brand rappresenta la nostra “maschera”, ciò che di noi facciamo risuonare nel mondo online e offline. Attenzione però: ogni “brand”, ogni marchio, deve adottare, accanto alla prospettiva interna (la visione su di sé), la prospettiva esterna (la visione di sé in rapporto agli altri).
Ciascuno di noi, con il proprio brand, è un nodo in rapporto ad altri nodi – ha affermato Filippo Poletti -. “Nessun brand”, parafrasando Hemingway, “è un’isola, ma parte del tutto”. E allora, nel comunicare, nell’interagire con gli altri, dobbiamo adottare non tanto e non solo il pensiero frontale (“vedo, rifletto e comunico ciò che ho di fronte”), ma anche il pensiero laterale (“vedo, rifletto e comunico tutto quello che mi sta intorno”). Ogni brand, anche personale, deve essere capace di mettersi in relazione con gli altri”.
Simona Menghini di Oracle sostiene invece che il personal branding è un modo moderno per esprimere chi siamo. Non possiamo infatti dire in assoluto che non ci fosse personal branding prima dell’avvento dei social, il nostro marchio personale era ciò che esprimevamo di noi stessi incontrando le persone e parlando con loro – o (per pochi) attraverso interviste con i media “mainstream”. È quel qualcosa che ci caratterizza, che tutti possiedono. Il discorso sta nel quanto vogliamo esternarlo, sia nel nostro ecosistema di amicizie (ad esempio tramite Facebook e Instagram), che nel mondo delle relazioni professionali (LinkedIN, ma anche Twitter, social “ibrido”).
Valentina Marini di ELIS spiega il concetto citando Jeff Bezos, CEO di Amazon: “Il Personal Branding è ciò che gli altri dicono di noi quando siamo fuori dalla stanza”. Non è solo una strategia:la nostra comunicazione e le nostre azioni generano impatto costantemente, anche quando siamo in silenzio. Personal branding è prima di tutto avere consapevolezza di se stessi, dei propri tratti distintivi e degli obiettivi che si vogliono raggiungere per sviluppare, in un secondo momento, la capacità di raccontarsi rimanendo autentici e facendolo in maniera costante.”
“Fare Personal Branding è come trovare un punto di equilibrio e di confine tra ciò che sono a livello individuale e il mio ruolo professionale, il mio riferimento organizzativo, di cui sono volto, immagine e parola” condivide Pozzobon, introducendo la seconda domanda.
Cosa significa fare “branding” da professionista?
Vista e considerata la grande esperienza professionale degli speaker, il confronto si è poi incentrato nell’inquadrare il concetto di branding dal punto di vista aziendale.
Il primo a prendere la parola è stato di nuovo il giornalista. “Come dice il filosofo Luciano Floridi siamo immersi nell’“onlife”, ossia una realtà caratterizzata dalla continua ibridazione delle due dimensioni online e offline. La rete è un mare magnum in cui dobbiamo fare “professional branding” per distinguerci e superare l’asimmetria informativa esistente, per usare un’espressione del Nobel economista statunitense George Akerlof.
Dobbiamo individuare una nostra melodia e far sentire la nostra voce: immaginiamo che ogni nostro post, storia o immagine pubblicata sui social media rappresenti una “briciola di pane” per citare Hänsel e Gretel dei Fratelli Grimm. Ciascun pezzettino andrà a formare quel “selciato professionale” percorribile da chiunque desideri avvicinarsi a noi.”
“Il Personal Branding nel contesto professionale è una somma complessiva di chi siamo nella vita e che cosa esprimiamo nel lavoro. I tre aspetti più importanti del Professional Branding sono,a mio parere: decidere chi siamo (valori, obiettivi, cose che sul lavoro “ci riescono bene”), chi vogliamo essere domani (il percorso professionale che vogliamo fare), qual è il tipo di pubblico a cui ci rivolgiamo (per metterci nei panni del destinatario, e dare un contributo interessante, in ottica di servizio)” – conclude la Responsabile Comunicazione di Oracle.
Sfidante anche il parere di Marini. “Bisogna sfatare il mito che chi si occupa di personal branding è soltanto colui che cerca lavoro. Si fa personal branding tutta la vita, perché è l’elemento che incide nella nostra influenza e che fa prendere delle decisioni su di noi. Il Personal Branding è una vetrina che se usata bene con intelligenza relazionale, è un’opportunità contemporaneamente per il professionista e per l’azienda poiché amplifica tantissimo le opportunità di business. Il professionista che racconta la propria la propria realtà lavorativa, ad esempio, possiamo dire che stia lavorando tecnicamente alla brand awareness e facendo employer branding”.
Personal branding ed employer branding, come coinvolgere le persone?
“Da sempre sostengo che ciò che rende un’azienda speciale e un great place to work sono le persone che vi lavorano all’interno, che vogliono e sono orgogliose di condividere con il loro network il vero e più genuino significato del working at. Dunque, per mettere in atto una strategia di Employer Branding, un elemento imprescindibile da cui iniziare è proprio il capitale umano che ha bisogno di sentirsi coinvolto come parte di un’organizzazione”. esordisce Poletti, e spiega: “Partirei da un dato dell’oggi: il “remote working”. Facciamo i conti: nel 2020 hanno lavorato da remoto 6,5 milioni di persone, pari a un terzo dei lavoratori dipendenti. A fine pandemia si prevede che lavoreranno in parte da remoto più di 5 milioni di professionisti. Questo pone una grande sfida, a partire da un maggior coordinamento. Da qui questa nuova figura del “capo del lavoro da remoto”, nata negli Stati Uniti in ambito informatico (GitLab).
Per accorciare le distanze, serve anzitutto più comunicazione interna alle nostre aziende. È “tempo di IoP”, l’Intranet Of People, cioè la rete interna tra le persone (sia una intranet, un’app, un canale social privato) che rompa il silenzio creato dalla distanza e dal remote working.”
È importante far sentire i lavoratori ambasciatori della loro organizzazione, perché non c’è Employer Branding più efficace di quello che fanno le persone spontaneamente quando lavorano con soddisfazione in un’azienda. Come Responsabile della Comunicazione di Oracle – afferma Menghini – sento forte il compito di aiutare ad uscire da ‘dietro le quinte’ coloro che lavorano in un determinato ambito, portando il loro contributo di valore, e dar loro voce in maniera più autorevole. Tuttavia, a mio parere, ci sono persone che fanno una distinzione un po’ troppo netta dei social circa la pubblicazione dei contenuti.
Ritengo che il nostro Personal e Professional Branding dovrebbe far coesistere l’utilizzo di social differenti, chiarendo la nostra posizione (ad esempio su Twitter, mettendo nella bio: “views are my own”) sui contenuti che non sono riconducibili a posizioni od opinioni espresse anche per conto dell’azienda in cui lavoriamo, ma che definiscono ciù che siamo, i valori che vogliamo rappresentare Questa sfumatura contribuisce anche a costruire un Employer Branding più autentico, non più incentrato meramente su meccanismi di tipo pubblicitario e sul fare da “cassa di risonanza”, ma proprio basato sulle caratteristiche distintive e arricchenti delle persone che compongono un’organizzazione.”.
“Oggi l’Employer Branding possiamo dire sia la somma dei Personal Branding di tutti coloro che formano l’azienda. Possiamo fare le cose più belle e innovative, ma se le mie persone ne parlano male o non ne parlano, l’Employer Branding non sarà mai efficace. Fondamentale è coinvolgere le persone nella comunicazione interna. In ELIS, ad esempio, abbiamo disegnato un percorso di Ambassador Academy, andando a innescare una Mindset Transformation circa l’impatto che il capitale umano può avere nell’azienda raccontando il proprio operato” – conclude Marini.
Come sta cambiando il valore delle parole online alla luce di questo anno di cambiamenti e trasformazioni?
“Da un anno e poco più stiamo assistendo ad una serie di trasformazioni epocali, prima fra tutte quella del mondo del lavoro – nota Poletti – Ora come non mai risulta doveroso e necessario prestare attenzione a ciò che si dice e nel modo in cui lo si dice onlife, citando nuovamente il filosofo Floridi, ma soprattutto quando ci si trova dietro uno schermo.” Dunque bisogna dare il giusto peso alle parole, un tema su cui il giornalista Poletti risponde così:
“A questo ho dedicato un libro, “Grammatica del nuovo mondo” che uscirà per Lupetti. La pandemia, questo dramma globale (con la crisi economico-finanziaria), ha inaugurato ufficialmente l’“era del noi”. Se c’è una parola che la pandemia ci ha fatto riscoprire è proprio questa: ci ha fatto rileggere, cioè, il pronome personale “io” al contrario con l’aggiunta della lettera “n”. Di fronte alla crisi globale in atto non esiste altra possibilità che unire le forze: vale per le istituzioni pubbliche e per quelle private, così come per le aziende e i lavoratori. Dobbiamo pensare in prima persona plurale: noi, noi, noi”.
Un consiglio che vi sentite di dare ad ogni professionista per iniziare a muovere i primi passi nel mondo del Personal Branding. E un consiglio a chi già lo fa?
“Sicuramente è importante sapere chi siamo, identificare quello che può essere il proprio brand e dove si vuole andare. Se parliamo di Professional Branding dobbiamo trovare le parole giuste per comunicarci e per trasmettere la nostra identità personale e professionale. Altro punto fondamentale su cui far leva è l’ascolto degli altri, con un tipo di comunicazione fatta di scambio e feedback: perché pochi hanno voglia di ascoltare qualcuno che parla – magari anche bene – ma non interagisce mai con le persone che gli o le stanno intorno. Importante anche costruire il proprio profilo social professionale giorno dopo giorno senza mai fraintenderne l’uso, avendo ben chiara la direzione verso cui si vuole procedere e dando il giusto peso alle parole.” – afferma Menghini.
“Ripartendo dalle basi della consapevolezza, il consiglio quotidiano è di usare LinkedIn, quello strumento che in termini professionali ci offre molte opportunità – spiega Marini. – Una piattaforma che mi piace definire un ‘open-space vista mondo’, che ci permette di conoscere il lavoro degli altri e affacciarci oltre i confini, studiando, facendo benchmarking, raccontare ciò che faccio io l’azienda. In altre parole, di usare questo social network del lavoro con consapevolezza e generosità. Come direbbe Adam Grant con la logica di essere prima giver e poi taker”.
A chiudere l’interessante confronto, Poletti: “Riflettiamo sul nostro personal branding canvas. Facciamolo con l’acronimo AIDA: c’è una prima fase di Awareness o conoscenza, seguita da quella dell’Interesse o creazione di interesse, a cui fa seguito la fase del Desire o creazione del desiderio, e in ultimo l’Azione o conversione. Nothing for nothing. Il personal branding è un lavoro, il successo viene dopo il sudore”.
Per rivedere l’evento: https://www.youtube.com/watch?v=5396ZYWBUOI
Personal branding e professional branding: tanti io per un grande noi e ripartire sul lavoro