I 7 errori più comuni in un progetto Smart Working. IMHO
Nell'avviare un progetto Smart Working ci sono 7 trappole che possono portarti a commettere degli errori, dannosi per la tua organizzazione.
Ecco! Finalmente l’ho fatto! In tanti mi hanno chiesto di scrivere un articolo che riassumesse i principali errori legati a un progetto Smart Working. Mi sono sempre rifiutato perché, in realtà, non è assolutamente facile. Direi anche un po’ presuntuoso. Essendo un tema in rapida evoluzione e non esistendo un approccio unico e standard, diventa complicato dire cosa sia giusto e cosa no.
Tuttavia, siccome ho notato il ripetersi di alcune “cattive abitudini”, alla fine ho ceduto. Provo a raccogliere i principali errori di valutazione che si sono presentati più volte in molteplici dibattiti, innumerevoli meeting e in tante storie di dipendenti e manager durante la mia esperienza con lo Smart Working.
L’unico scopo di questo contributo è attenzionare coloro che sono in procinto di lanciare un progetto Smart Working i quali, devono esser infinitamente grati alle aziende che per prime hanno sperimentato lo Smart Working. Senza di esse (e senza i loro errori) non sarebbe stato possibile:
- lo sviluppo di nuove e migliori prassi per avvicinarsi allo Smart Working;
- la diffusione del fenomeno su larga scala e il conseguente rinnovamento degli assetti e dei modelli organizzativi delle aziende.
Iniziamo. Ecco 7 trappole da evitare.
Gli errori da evitare se stai lanciando un progetto di smart working
1. “Lo Smart Working è un progetto HR.”
Eccolo. Un classico! Considerare lo Smart Working come un affare esclusivo HR è forse l’errore più comune.
L’implementazione dello Smart Working non può e non deve essere un obiettivo del Responsabile HR che, da un giorno all’altro, deve rimboccarsi le maniche e dar seguito alla email ricevuta dal suo CEO in cui il succo (sinteticamente e ironicamente) era:
“Dobbiamo fa ’sto Smart Working. Pensaci tu!”.
Lo Smart Working è – prima di tutto – un progetto di cambiamento organizzativo ambizioso che impatta trasversalmente su più dimensioni (persone, tecnologie e spazi) e deve esser gestito con la giusta attenzione, cioè la massima.
Non può essere il solo Direttore HR o, tanto meno, il Responsabile Formazione a governare questo percorso: seppur rappresentano le figure più “vicine” alle persone, hanno una parziale visione dell’intera organizzazione.
2. “Faccio una survey, ma alla fine già so cosa vogliono le persone.”
Lo Smart Working è un progetto fatto per le persone della nostra organizzazione che, non dimentichiamocelo, sono il bene più importante. Dunque, come possiamo pensare di avere la soluzione se non conosciamo a fondo il problema? E se invece il problema che riteniamo fosse il principale si rivelasse poi clamorosamente sbagliato?
Partire con un questionario, raccogliere i risultati e interpretarli ci aiuta a comprendere bisogni, desideri e suggerimenti che le persone elaborano, contemplano e raramente condividono.
3. “Invio una email per informare che lo Smart Working è partito.”
Io ho i miei seri dubbi. E li ho anche quando si decide di inserire un annuncio nell’intranet o nella bacheca aziendale.
Quante volte al giorno consultiamo la intranet? Lo facciamo quando dobbiamo chiedere un permesso o un rimborso spese, aprire un ticket help desk o raccogliere informazioni su eventuali convenzioni attive. Si tratta di attimi in cui il nostro cervello è impegnato a fare esclusivamente quell’attività. Bene, anzi male! Serve altro.
L’implementazione deve esser accompagnata da un piano di comunicazione strutturato che copra più touchpoint (online e offline) della employee experience. Lo Smart Working è cambiamento. La sfida è trasformare lo straordinario in ordinario.
4. “Si, ma tanto sappiamo già cos’è lo Smart Working!”
Non definire chiaramente il concetto Smart Working e non rendere consapevoli tutti (in primis il top management) sul nuovo paradigma di lavoro è un errore fin troppo comune. Perché dare per scontato quello che in realtà potrebbe esser altamente frainteso?
Purtroppo c’è tanta confusione dietro la parola Smart Working e sempre più improbabili e improvvisati professionisti e giornalisti scrivono valanghe di fesserie interpretando il concetto in maniera errata. Ciò non fa altro che alimentare un apprendimento distorto e parziale da parte delle persone che, a loro volta, hanno poca voglia e tempo nell’approfondire l’argomento, fermandosi a un primo e superficiale studio.
Investire del tempo per allineare tutti sul concetto Smart Working è cosa saggia, non trovi?
5. “Partiamo con 2 giorni da casa a settimana.”
Ma dico io: “Perché partire dalla fine?”
Come diceva il mio ex capo quando provavo subito a dare la soluzione ai problemi dei clienti: “non arrivare subito all’assassino. leggi prima il libro!”.
Dare sin da subito l’opportunità di lavorare al di fuori degli uffici (per non dire da casa) è pura follia. Soprattutto per quelle aziende che, fino a ieri, hanno lavorato con un paradigma tradizionale basato su controllo della presenza e gestione del tempo.
Prima di arrivare al lavoro da remoto bisogna accompagnare le persone a costruire relazioni basate sulla fiducia, a lavorare per obiettivi, a gestire le persone da remoto, ad adattarsi ai vari contesti mutevoli, a prendere dimestichezza e confidenza con le tecnologie digitali e bla bla bla. C’è tanta strada da fare…
6. “Siamo un’azienda innovativa. Abbiamo tutto quello che serve.”
Può partecipare ad una video conference call senza problemi con una qualità audio e video che gli consenta di seguire tutto e interagire facilmente? E quelli che sono in ufficio sono in grado di avviare una conference call senza l’intervento di un tecnico?
In ufficio ci sono aree dedicate per fare video call senza disturbare gli altri? La comunicazione con i colleghi e con il capo è facile e immediata anche da remoto, oppure aumenta il numero di email inviate per gestire le varie attività?
Si tende a percepire il collega che lavora da remoto come parte integrante del team oppure lo si coinvolge solo quando torna in ufficio?
7. “Studiamoci come fanno gli altri e poi lo implementiamo.”
Il fai da te non è per tutti. Fino a quando dobbiamo montare un Billy (libreria Ikea) il risultato che venga perfetto è legato a quanto attenti siamo stati nel seguire le istruzioni.
Se, invece, dobbiamo montare un Pax (guardaroba Ikea) a più ante con cassetti, specchi e altro la questione diventa un po’ più complicata, soprattutto se abbiamo solo cacciavite e martello.
Ecco, il Pax è lo Smart Working.
Come può uno stagista o anche uno dell’Ufficio Personale (vedi punto 1) avere da solo una visione completa sull’organizzazione, sull’evoluzione dei modelli organizzativi, sui trend di mercato e delle tecnologie emergenti e sul concetto Smart Working?
Difficile trovarlo e – se ce l’hai – tienitelo stretto. La questione è molto semplice: ciò che fanno gli altri può esser solo fonte di ispirazione e non una best practice da introdurre nell’organizzazione.
Quello che ha funzionato da una parte, è molto probabile che non possa funzionare nella tua organizzazione perché le persone sono diverse, la cultura e le abitudini sono diverse, le tecnologie adottate sono diverse, gli spazi sono diversi, il business è diverso.
Senza troppi giri di parole: serve un consulente esterno.
Se stai avviando un progetto Smart Working e hai timore di incappare in una di queste trappole scarica gratuitamente il case study per capire come evitare di commettere questi errori!
💡 Per approfondire l’argomento, imparare dalle cattive abitudini e conoscere ed evitare le trappole che possono presentarsi in un progetto Smart Working, incontriamoci virtualmente nel digital meeting “Gli errori più comuni in un progetto smart working” 👉 event.webinarjam.com/channel/SmartWorkingErrori
I 7 errori più comuni in un progetto Smart Working. IMHO