La miopia è il problema dello smart working
Sono miope da molti anni e me ne sono accorta studiando per l’esame di maturità. Più sforzavo gli occhi per vedere da vicino e più si evidenziava, a causa della stanchezza, il difetto visivo. Ci vedevo male da lontano dunque, e vedevo poco le cose nel loro complesso, tanto di più quando mi concentravo sul particolare vicino.
Questa è anche la malattia di chi parla dello smart working in Italia. Anche perché nel resto del mondo hanno smesso di parlarne, lo fanno e basta.
Il problema è la riduzione dello smart working a qualche micro pratica aziendale, a qualche flessibilità oraria. La riduzione dell’istituto a questioni di welfare aziendale, ad un contentino dato qui e là a lavoratori e sindacati. Questo ho pensato leggendo qualche giorno fa la newsletter di Variazioni che poneva la domanda:
“Lavoro Agile: la priorità alle madri fa davvero bene alle madri?”
Di cosa parlavano?
Della modifica alla legge 81 del 2017 operata dalla manovra finanziaria 2019 che riporta:
«i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile, sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità» e «dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 104/1992.»
Perché il legislatore scrive questo a proposito del lavoro agile?
Perché pensa che sia un contentino da dare alle madri, una concessione a quelle pazze coraggiose che continuano a volere figli in una nazione che fa di tutto per convincerle del contrario?
Il fatto che non compaiono i lavoratori padri (se ne parla solo dopo a proposito di sfortune maggiori) fa emergere subito la posizione di chi scrive, che indica la donna come l’unica persona che possa occuparsi dei figli.
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Ma soprattutto davvero lo smart working serve solo per gestire i figli o le nostre difficoltà?
Se qualcuno pensa ancora di si, proprio non ci siamo. Allora vogliamo solo guardare da troppo vicino uno dei molteplici aspetti dello smart working perdendo di vista completamente la visione generale, rimanendo miopi.
Il lavoro agile se non diventerà davvero una visione completamente diversa di come lavoriamo non ha senso di esistere, e forse è già morto.
Il problema dello smart working? Non avere una visione completa
Il lavoro agile mette al centro il lavoratore con i suoi talenti e capacità, lo fa sentire parte dell’organizzazione all’interno della quale opera e artefice del suo destino.
Lo smart worker è una persona che viene ascoltata e ha autonomia di azione. Sa quali obiettivi raggiungere e li persegue. Ha strumenti informatici che hanno rivoluzionato il suo modo di comunicare e agire abbattendo le barriere dell’eccesso di comunicazione e della carta.
Lavora in spazi che favoriscono la concentrazione, ma anche l’incontro. Collabora e condivide perché ha capito che tenere per sé conoscenza e idee lo impoverirebbe invece di arricchirlo. Aiuta la crescita dei propri collaboratori e gioisce dei risultati di squadra.
È padrone del suo tempo, la risorsa non rinnovabile più importante che ha.
Chiudete gli occhi per un attimo e pensate all’organizzazione in cui lavorate o ad una che conoscete da vicino. Immaginate che sia composta da persone così.
Permettetemi di sognare per un attimo che sia così tutta la pubblica amministrazione.
Mi piacerebbe poter regalare un paio di occhiali a chiunque oggi si occupi (o sia convinto di farlo) di lavoro agile e fargli vedere le cose dall’alto, da lontano.
Fargli capire come nel tempo con una visione completa dell’organizzazione del lavoro si potrebbero raggiungere risultati immensi, a vantaggio di tutti.
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