La legge sullo Smart Working nella PA, era necessaria?
La legge sullo smart working nella pubblica amministrazione è stata pubblicata circa 18 anni fa. Si tratta della legge 16 giugno 1998, n. 191 che all’articolo 4, detta disposizioni in materia di lavoro a distanza nelle Pubbliche Amministrazioni.
In cinque semplici commi questa legge sullo smart working (di cui si è parlato anche qui) delinea gli indirizzi necessari.
Traguardando il ruolo che l’evoluzione delle tecniche di informazione avrebbe potuto svolgere nel processo di riforma della Pubblica Amministrazione, ha reso da lungo tempo possibile la flessibilità di impiego delle risorse umane con lo scopo di “…razionalizzare l’organizzazione del lavoro” e “…realizzare economie di gestione”.
Nel rispetto di poche e basilari disposizioni volte a prevenire i rischi di utilizzi impropri del concetto di flessibilità a danno del dipendente, questa legge permette già nell’interesse dell’amministrazione, il superamento dei vincoli contrattuali che impongono di effettuare la prestazione lavorativa nella sede di lavoro, senza limitare i possibili assetti logistici.
Lo spirito della riforma che la legge ha contribuito a delineare, perseguiva un disegno complessivo di semplificazione e di decentramento, fondato sull’innovazione dell’organizzazione e del funzionamento dell’amministrazione pubblica. Rafforzare la formazione, l’autonomia del personale, le dotazioni informatiche delle amministrazioni, aveva la finalità di creare una rete moderna, diffusa e connessa di conoscenze e risorse che avrebbero permesso di ridurre i costi di gestione, di migliorare la qualità dei servizi e dell’azione amministrativa.
Che le cose non siano evolute in questa direzione è sotto gli occhi di tutti. La legge sullo smart working e sul lavoro a distanza nella pubblica amministrazione non ha funzionato, così come non ha funzionato gran parte del processo di riforma immaginato a fine anni ‘90.
Se si esplorano le cause del fallimento appare evidente che i motivi non risiedono nella legge, ma nella dissociazione tra indirizzi normativi e la volontà politica espressa nei provvedimenti attuativi che ne hanno pervertito i princìpi e nel governo, affidato ad una classe dirigente non pronta ad innovare il proprio modo di operare.
Il regolamento attuativo della legge, immodificato da oltre 15 anni, non ha fornito gli indirizzi chiari e le procedure organizzative snelle richieste dal mandato legislativo, né ha abrogato le norme incompatibili. Secondo una modalità ben nota, ha invece introdotto complicazioni concettuali e amministrative del tutto illogiche e ha ricondotto le disposizioni della legge in un alveo di indeterminatezza, in cui i contorni di procedure e responsabilità si dissolvono.
Nel definire le regole di applicazione del lavoro a distanza ha prevalso la tendenza a mantenere inalterati i modelli organizzativi e a operare piuttosto per modificare lo strumento che si sarebbe dovuto regolamentare. Il ricorso al telelavoro per le amministrazioni è diventato così accessibile solo nell’ambito di specifici progetti, di cui il decreto elenca i contenuti attesi senza fornire, come era lecito attendersi, quanto necessario per guidare e supportare l’amministrazione nel processo di introduzione progressiva di tecnologie dell’informazione e di modelli innovativi e flessibili di organizzazione del lavoro e di gestione del personale.
Queste scelte unite alla farraginosità delle procedure hanno determinato il principale limite del decreto che è quello di aver indotto le amministrazioni a considerare e trattare il ricorso al lavoro a distanza non come una parte di un processo generale e organico di riorganizzazione delle attività lavorative, ma come una sorta di appendice con caratteristiche e finalità separate rispetto a quelle della normale attività lavorativa, che proseguiva inalterata.
Nella stessa direzione si sono mossi gli accordi sindacali intercompartimentali, settoriali e integrativi, a cui era affidato il compito di declinare la normativa generale sul lavoro alle attività svolte a distanza e che hanno invece dilatato nel tempo i processi di attivazione del telelavoro nella Pubblica Amministrazione, vincolandolo ad esigenze di conciliazione del dipendente e indirizzandolo al solo lavoro domiciliare.
Sono stati questi processi che aggirando il mandato legislativo hanno offerto ed offrono comoda sponda a chi, nella Pubblica Amministrazione non nutre alcun interesse a modificare i vecchi modelli organizzativi del lavoro, all’interno dei quali i criteri di trasparenza, efficacia dell’azione amministrativa, qualità di produzione di beni e servizi, valutazione dei risultati e merito, non hanno rilievo.
Perché allora proporre una nuova legge sullo smart working e non più semplicemente aggiornare il regolamento attuativo e la contrattazione sindacale? Perché non limitarsi a colmare le lacune e adeguare le disposizioni regolamentari all’evoluzione delle IT e del benessere organizzativo e optare invece per cambiare le regole del lavoro subordinato?
Se l’intento era quello di fornire un contesto procedurale chiaro al lavoro agile nella pubblica amministrazione, non era necessario; servirebbe piuttosto agire in modo efficace sulla classe dirigente perché non ostacoli, ma promuova i processi di innovazione delle amministrazioni.
A pensar male, l’introduzione del lavoro agile oggetto dei disegni di legge 2229 e 2233, appare più un pretesto per allargare il processo di destrutturazione del lavoro subordinato, che la creazione di condizioni per lo sviluppo di nuove abilità.
Il concetto di “agilità” è associato infatti a forme di contrattazione individuale fortemente squilibrate a sfavore della parte debole, che non mancheranno di introdurre ulteriori condizioni di instabilità e di incertezza sia nel pubblico che nel privato.
Per approfondire il concetto della legge sullo smart working ti consigliamo di leggere anche questo articolo.
La legge sullo Smart Working nella PA, era necessaria?