Quando l’emergenza accende l’innovazione: ICT, smart working e le tensioni della connettività
Lo stato di emergenza ha sconvolto le nostre abitudini. Il pianeta non è stato mai così connesso. L'innovazione si accende: connettività e smart working.
Un articolo di Daniele Demarco* e Luisa Errichiello
Se avessimo occhi per vedere l’invisibile (ad esempio il tracciato delle trasmissioni mediatiche) noteremmo come, nel silenzio di questi giorni, il cielo sia percorso da un gran movimento. Vedremmo fasci di luci iridescenti che si diramano verso ogni punto cardinale propagandosi da ogni casa, da ogni quartiere, da ogni città. Quelle scie di luce in movimento sono le nostre connessioni alla rete. È vero: negli ultimi vent’anni la rete ci ha sempre accompagnato. Ma mai come nel corso di queste settimane il pianeta è stato così connesso.
L’improvvisa diffusione del covid-19 e la necessità di arginare il contagio globale hanno prospettato, infatti, l’urgenza di porre in essere delle inaudite misure di contenimento: “distanziamento sociale”, “isolamento domestico”, forti limitazioni della mobilità.
In questo generale “stato di eccezione” le nostre consuetudini sono state sconvolte. La prossimità fisica e gli scambi sociali, interdetti dal rigore di simili misure, sono stati, per la prima volta, surclassati dalla cosiddetta “tele-prossimità”.
Era così che Paul Virilio, urbanista e filosofo francese, definiva le relazioni tra gli individui abilitate dalle nuove tecnologie. In altre parole le città si svuotano e i fori urbani diventano deserto. I traffici internet si fanno frenetici e i social-forum tracimano di accessi.
Anche le tradizionali routine lavorative iniziano a migrare nel cyberspazio grazie all’ausilio delle ICT e alla possibilità di ricorre allo smart working. Basti pensare che se, in Italia, alla fine del 2019, i cosiddetti i lavoratori “smart” non erano più di 570 mila (Osservatorio Smart working, Politecnico di Milano), a poche settimane dall’inizio della pandemia altri 555 mila si sono aggiunti al computo (Ministero del Lavoro).
Si stima che la modalità di lavoro “smart” sia estendibile a 8 milioni di unità e sicuramente l’emergenza fungerà da volano per ampliare un trend già in atto dal 2017.
Quest’autentico esodo verso la realtà virtuale ci impone una riflessione sulla connettività, in particolare sul come la connettività potrebbe modificare la nostra concezione del lavoro. Il rischio è che, nell’enfasi del momento, si finisca per fraintendere il significato dello smart working e, cioè, di un complesso progetto di change management che non è equiparabile al telelavoro domestico, per altro imposto dallo stato di emergenza.
Da qui l’esigenza di prendere consapevolezza che la nostra connettività deve essere, anzitutto, gestita. Bisogna comprendere che le connessioni alla rete e i processi di innovazione ad essa correlati, possono, di certo, offrire opportunità, ma anche scatenare contraddizioni per i lavoratori tra cui il disorientamento, la crisi della propria identità lavorativa, l’isolamento sociale e professionale.
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Quale significato assume la connettività nel contesto delle organizzazioni?
Il termine connettività, originariamente usato per descrivere le connessioni tra reti, è ormai ampiamente utilizzato per definire gli scambi inter- e intra-organizzativi.
Secondo Darl Kolb (2008), uno dei principali teorici del tema, la connettività offerta dai nuovi dispositivi mediatici (le cosiddette Information and Communication Technology o ICT) esibisce, anzitutto, tre distinti attributi:
- la possibilità per l’utente di scegliere, in autonomia, se, come e quando connettersi;
- l’intermittenza temporale, che fa si che la connettività non sia sempre costante, in quanto differita nel tempo per effetto di fattori quali ritardo, fuso orario, guasti tecnici;
- la “dualità” intrinseca alla connettività. Ogni forma di connessione elettronica implica, infatti, anche una disconnessione. Si pensi, ad esempio, a come le connessioni virtuali ci disconnettono dalla socialità fisica.
Nell’ambito delle realtà organizzative, la connessione avviene sempre attraverso ICT, ma i dispositivi connettono l’utente a reti digitali gestite dalle aziende. Negli ultimi decenni il potenziale delle ICT impiegate dalle aziende si è molto evoluto.
Si è passati dall’utilizzo di strumentazioni low-tech, come il telefono o il cellulare, a quello di tool molto più sofisticati come i sistemi di videoconferenza. L’innovazione tecnologica ha consentito alle aziende di riorganizzare il lavoro integrando competenze geograficamente disperse. Ciò ha garantito un incremento delle performance oltre a un notevole risparmio economico.
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La gestione della connettività elettronica: la prospettiva dello smart worker
In ambienti di lavoro molto strutturati la possibilità di decidere quando e come connettersi è condizionata da molte variabili: comunicatività individuale, livello di fiducia reciproca, cultura collaborativa.
La scelta di modulare i livelli di connessione è, al contempo, legata alle esigenze dello smart worker (Barsness et al, 2005; Sewell e Taskin, 2015; Dery e Hafermalz, 2016). Tra queste, la necessità di “performare” una propria identità professionale anche in assenza di prossimità fisica e interazione face-to-face.
Ciò avviene, ad esempio, quando un lavoratore mira a trasferire un senso di affidabilità rassicurando i propri colleghi e manager circa le sue prestazioni individuali, o ancora quando intende mantenere (o rafforzare) il proprio senso di appartenenza a un’organizzazione. In tali circostanze, le connessioni abilitate tramite l’utilizzo delle ICT facilitano un processo di disclosure delle intenzioni del lavoratore.
Tuttavia, se le ICT facilitano, aiutandoci a superare le distanze fisiche, esse producono anche forti tensioni. Un primo livello di criticità è direttamente legato allo status dello smart worker, un lavoratore sottoposto a specifiche pressioni sia psicologiche sia sociali.
Da un lato, infatti, egli soffre di workplace telepressure (Barber e Santuzzi, 2015): una particolare forma di stress psicologico che deriva dall’apprensione di rispondere alle sollecitazioni mediatiche (es. mail). Dall’altro, per preservare la sua legittimità, egli è spinto ad assecondare un’attesa di connettività costante espressa, spesso implicitamente, sia dai manager, sia dai colleghi (Leonardi et al., 2010).
Un secondo livello di criticità ha, invece, una portata molto più ampia ed è da ricercare nel significato che ogni lavoratore attribuisce al suo specifico workplace: come, cioè, in relazione al luogo di lavoro, egli definisce il suo sistema relazionale; come, in relazione a questo sistema relazionale, egli definisce la propria identità.
Per spiegare questo livello di criticità si potrebbe partire da una considerazione di base: il massiccio impiego delle tecnologie mediatiche, ha creato un nuovo tipo di ambiente sociale. Un ambiente in cui lo spazio che condividiamo non coincide più con la localizzazione.
Quest’ambiente, dal punto di vista antropologico, stando alla nota definizione di Marc Augé, è tecnicamente un “non-luogo”. Esso manca, infatti, delle tre componenti che, secondo Augé, informano i “luoghi”: una componente identitaria, una componente storica e una relazionale. È proprio il combinato di simili componenti a differenziare i “luoghi” dallo “spazio”.
In senso assoluto lo “spazio” è, infatti, freddo, è disumanizzato, è spersonalizzante. Al contrario, i luoghi sono un focolare che offre sicurezza e identificazione. Sono i luoghi a riscaldare lo spazio, a conferirgli un senso e un orientamento specifico. All’interno di essi ci si può sentire protetti e consolidare punti di riferimento immobili. Riferimenti che ci aiutano a ricostruire un percorso tutte le volte che ci sentiamo dispersi.
Del resto non è raro sentirsi dispersi all’interno del non-luogo virtuale, quello spazio aperto e, per antonomasia, de-localizzato che eufemisticamente oggi definiamo smart city: la città dove tutto è connesso a tutto, tutto è agile, ma anche etereo e sfuggente.
Alla radice delle tensioni sociali e psicologiche proprie dello smart worker, c’è, dunque, anche quella perdita di luogo che è un fenomeno tipico della società globale, fenomeno accentuato da processi di de-localizzazione e di diffusione di team virtuali geograficamente dispersi.
Il circolo vizioso della connettività perpetua è solo l’altra faccia di questo fenomeno. Le grandi promesse dello smart working vanno, dunque, osservate anche in una prospettiva più estesa. Solo così potremo soppesarne il valore e comprenderne le criticità.
Lavorare a distanza richiede padronanza delle tecnologie. Ma significa anche sapersi “appropriare” delle funzioni adattandole alle esigenze specifiche di lavoro (Orlikowski, 2000). Significa, ricercare un adeguato livello di connettività o connettività “necessaria”, intermedia tra due estremi (Kolb et al., 2012).
Da un lato la “ipo-connettività” che si registra quando il grado di connessione non è adeguato alle circostanze specifiche. Dall’altro la “iper-connettività” che si registra quando l’eccesso di connessione risulta controproducente per la performance lavorativa.
Solo ricercando un posizionamento intermedio, lo smart worker potrà ricavare i benefici attesi: maggior concentrazione, maggiore autonomia e flessibilità, incremento di produttività, miglior work-life balance. Viceversa, la disconnessione diventa il principale meccanismo di difesa dai rischi insiti in un eccesso di connettività, tra cui fenomeni di burnout, distrazione, ridotta produttività, tensioni familiari, incapacità di riflettere e ponderare.
Accanto alla riduzione di controproducenti pressioni psicologiche e sociali, una giusta connessione consentirà inoltre di preservare chi lavora in remoto dal serio rischio di rinunciare alla ricerca continua di relazionalità e identità autentiche, ovvero di connessioni interpersonali all’interno di “luoghi”.
Superare le tensioni della connettività: il ruolo delle organizzazioni e dei manager
Le organizzazioni ed i manager hanno un ruolo fondamentale per supportare gli smart worker nella ricerca di un adeguato grado di connettività. Da un lato, le imprese devono garantire sufficienti investimenti in tecnologie abilitanti per scongiurare i rischi in termini di produttività aziendale e ridotto senso di appartenenza all’organizzazione, che sono insiti in uno scarso livello di connettività potenziale delle tecnologie.
Dall’altro, però, sono necessari interventi altrettanto importanti sulla sfera comportamentale: i manager dovrebbero instaurare un dialogo costante con gli smart worker per capire quale sia la “soglia” di connettività in grado di garantire un ambiente di lavoro stimolante e produttivo, nonché di saperla modificare nel tempo in relazione agli effetti prodotti.
Più in generale, le organizzazioni dovrebbero fornire una formazione adeguata ai lavoratori circa i potenziali rischi derivanti da un eccesso di connettività e favorire, attraverso discussioni collettive face-to-face, una rinegoziazione democratica e condivisa delle aspettative di connettività a cui ciascun collega o capo può aspirare nei confronti degli smart worker con cui interagiscono nel quotidiano.
Articolo in collaborazione con:
Daniele Demarco
Ricercatore presso CNR-ISMed e Dottore di Ricerca in Filosofia Moderna e Contemporanea.
Le sue ricerche come oggetto le società tardo capitalistiche e alcune grandi trasformazioni che si sono prodotte in esse negli ultimi trent’anni. In particolare esse cercano di comprendere come la rivoluzione tecnologica (con la diffusione delle ICT), la crisi delle economie tradizionali e la nascita dell’Experience Economy” stiano impattando sulla percezione dello spazio, dell’esperienza e dell’autenticità.
Nell’ambito delle attività svolte ha collaborato a diversi progetti di ricerca sperimentando approcci interdisciplinari a cavallo tra filosofia, urbanistica e management.
Photo credits: Daniele Demarco
Quando l’emergenza accende l’innovazione: riferimenti bibliografici
Augé, M. (1993). Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, tr. it. Milano, Elèuthera.
Barber, L. K., & Santuzzi, A. M. (2015). “Please respond ASAP: Workplace telepressure and employee recovery”. Journal of Occupational Health Psychology, 20(2), 172.
Barsness, Z. I., Diekmann, K. A., & Seidel, M. D. L. (2005). “Motivation and opportunity: The role of remote work, demographic dissimilarity, and social network centrality in impression management”. Academy of Management Journal, 48(3), 401-419
Dery, K., & Hafermalz, E. (2016). “Seeing is belonging: Remote working, identity and staying connected”. In The impact of ICT on work (pp. 109-126). Springer, Singapore.
Kolb, D. G. (2008). “Exploring the metaphor of connectivity: Attributes, dimensions and duality”. Organization Studies, 29(1), 127-144.
Kolb, D. G., Caza, A., & Collins, P. D. (2012). “States of connectivity: New questions and new directions”. Organization Studies, 33(2), 267-273.
Leonardi, P. M., Treem, J. W., & Jackson, M. H. (2010). “The connectivity paradox: Using technology to both decrease and increase perceptions of distance in distributed work arrangements”. Journal of Applied Communication Research, 38(1), 85-105.
Orlikowski, W. J. (2000). “Using technology and constituting structures: A practice lens for studying technology in organizations”. Organization science, 11(4), 404-428.
Sewell, G., & Taskin, L. (2015). “Out of sight, out of mind in a new world of work? Autonomy, control, and spatiotemporal scaling in telework”. Organization Studies, 36(11), 1507-1529.
Virilio, P. (1998). La bomba informatica, tr. it., Milano, Cortina.
Quando l’emergenza accende l’innovazione: ICT, smart working e le tensioni della connettività