L’efficacia del Design Thinking nei team da remoto
La metodologia Design Thinking applicata a gruppi di lavoro distribuiti, migliora la creatività e la produttività. Come? La parola a Stefano Stravato.
La metodologia del Design Thinking applicata a gruppi di lavoro distribuiti, migliora la creatività e la produttività, nonché il team management.
Nel periodo di “total remote” in cui ci troviamo è indispensabile scoprire come adattare la metodologia in una dimensione che richiede altre logiche e comportamenti.
Stefano Stravato, Innovation Advisor | Growth & Service Designer in questa intervista spiega come gestire brainstorming e sessioni di progettazione da remoto e quali tecniche e strumenti sono utili per stimolare la creatività e la produttività di un team.
Buona intervista!
Per approfondire l’argomento non perderti il digital meeting “Smart Working: codesign nei team virtuali“
Il design thinking per facilitare produttività e creatività nel remote team
Q. Ciao Stefano, grazie per essere qui su Spremute Digitali. Parliamo di Design Thinking tra reale e virtuale. Prima di tutto ti chiedo qual è l’obiettivo del Design Thinking?
A. Grazie a voi, è un piacere essere venuti a trovarvi, fare il pieno di vitamine, in questo periodo fa bene.
L’obiettivo del design thinking è risolvere problemi o, meglio ancora, trovare nuove opportunità, e questo ha un effetto collaterale: cambia la consapevolezza con cui le organizzazioni si percepiscono come fattore di cambiamento.
Il design thinking è considerato, a buona ragione, un approccio inclusivo capace di coinvolgere tutte le risorse e le aree aziendali. La sua vocazione interdisciplinare fa la differenza nel lungo periodo.
Per spiegarmi meglio condivido una sensazione: la meraviglia che provo ogni volta che inizio un percorso di design thinking con un cliente che lo sta sperimentando per la prima volta. Iterazione dopo iterazione il gruppo di lavoro e gli stakeholder iniziano a capire di cosa si tratta. Il tempo passa e tu misuri quali effetti producono i metodi e gli strumenti che hai sapientemente miscelato sulla base di esigenze specifiche e obiettivi di business.
Non passa troppo tempo che l’azienda scopre di poter estrarre, scoprire o disvelare conoscenza sopita e valore nascosto che poi, con la stessa cassetta degli attrezzi, il team trasforma, a seconda dei casi, in mappe, personaggi, prototipi testabili, MVP, prodotti o servizi da testare, rifinire e poi realizzare e lanciare sul mercato.
Alla fine, se fai questo mestiere, ti senti un po’ come un pirata che trova il forziere con i dobloni d’oro, dopo aver disegnato egli stesso la mappa del tesoro assieme al suo cliente. E spesso il tesoro è dentro l’azienda stessa.
Il design thinking è versatile e può essere applicato ai campi dell’innovazione, del cambiamento, del business e genera un graduale, ma inarrestabile transizione di paradigma manageriale, che può impattare le organizzazioni fino a mutarne il DNA.
Per citare Idris Mootee, Ceo di Idea Couture, si passa dai concetti del secolo scorso come dimensioni e perimetro di progetto a quelli più attuali di velocità e fluidità; dalla prevedibilità all’agilità, dai confini rigidi a quelli fluidi, dal “command and control” al “creative empowerment”: dall’essere reattivi e avversi al rischio, a essere intraprendenti.
Le aziende che sposano l’approccio di design thinking non fermano mai la fase di “ricerca” o “analisi” spesso relegate a fasi prodromiche del progetto e ancor più spesso sacrificate sull’altare del poco budget.
Abilitano la continuous discovery, la “scoperta” continua. Chi si mette in quest’ottica ha il vantaggio di scoprire qualcosa prima degli altri e non dagli altri, ed è più preparato di fronte all’inaspettato e al mistero.
In sintesi, un’organizzazione che punta sul design thinking è capace di tradurre ciò che scopre in elementi tangibili che diventano le fondamenta del vantaggio competitivo.
Le rende meno fragili, più capaci di reagire alle situazioni di crisi, più fluide, più consapevoli dei mezzi che hanno per affrontare problemi complessi, quando arrivano.
Q. Nella situazione di “total-remote” che stiamo vivendo come cambia l’adozione della metodologia?
A. Cambia poco, aumenta il focus degli addetti ai lavori e l’attenzione del pubblico è altissima. La condizione, nonostante tutto, è positiva.
Dopo il lock-down abbiamo tirato una linea per capire quali attività potessimo fare da remoto e quali no.
Ci siamo resi conto che da remoto, non solo facevamo già tante attività individuali, ma anche con più di due persone, come i test di usabilità, le interviste, la mentorship dei design team, i workshop di co-design. All’inizio era una necessità per ottimizzare i tempi oppure per lavorare con clienti lontani. Adesso è una virtù.
Da un mese a questa parte, in ogni caso, qualcosa è cambiato di sicuro. Come team abbiamo sentito l’esigenza di raccogliere e scambiarci le tante testimonianze e documenti che adesso circolano sul work-from-home, per selezionare gli spunti migliori.
Ci siamo potuti confrontare con l’esperienza di team che sperimentano il total-remote da anni, e adesso abbiamo un’infinità di risorse che possiamo consultare per adeguare il Design thinking al social distancing.
Un risorsa curata molto bene è “Remote work for design teams” messa a disposizione da InVision oppure Online Meeting Resources Toolkit for Facilitators un documento distribuito in Creative Commons.
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Q. Esistono tecniche e strumenti per facilitare la creatività nei team da remoto e nelle organizzazioni distribuite?
A. Penso che la cosa più importante sia assicurarsi che i rituali del team rimangano inalterati anche da remoto. È complesso, ma, come dicevo tante aziende lo fanno da anni, e l’elenco delle risorse disponibili è incredibile.
La mia lettura preferita è quella scritta da Erin Casali “Guida su come impostare la propria strategia di remote working” perché spiega bene come operare a vari livelli.
La guida nasce dall’esperienza di Erin in Automattic (l’azienda il cui prodotto di punta è WordPress ed è totalmente basata sul work from home) ed è divisa in due parti:
- una riguarda le aziende, con una serie di check list su come si devono strutturare alcune policy (come ad esempio gli assegni per provvedere all’abbonamento Internet, il baby sitting, l’acquisto di una sedia adeguata);
- la seconda parte è dedicata alle persone, a come configurare uno spazio di lavoro, trovare le giuste routine per essere in armonia con colleghi e familiari. Sono curiosi i consigli per il corretto set-up della webcam e su come diminuire al massimo le distrazioni.
È il mio mix preferito di pratiche, istruzioni, consigli e contiene anche una parte su come gestire le paure.
Una volta assicurata la base, penso che i designer siano nella condizione ideale per progettare come facilitare la creatività da remoto, con in più la possibilità di attingere all’esperienza dei colleghi che, giorno dopo giorno, ampliano la libreria dalla quale attingere spunti e tecniche adeguati alla nuova situazione.
Ad esempio se vogliamo ripensare alla tecnica specifica del rompighiaccio dobbiamo dare un’occhiata al post Virtual Meeting Check-Ins & Icebreakers During A Pandemic che propone tra le altre attività, quella di fare un ritratto del tuo “vicino di zoom”, con Mural.
Q. Come posso gestire brainstorming e condurre sessioni di design sprint da remoto e fare in modo che siano efficaci?
A. Il punto qui è disegnare un workshop tenendo conto di un vincolo forte, che è l’essere tutti da remoto. Però le tecnologie ci consentono di fare molte attività, alcune con più fatica, ma altre, probabilmente, anche con più focus e in maniera più immediata.
Pensa ad esempio ad una sessione di clustering, quella in cui raggruppiamo i post-it su una parete secondo alcuni criteri condivisi dal gruppo di lavoro. Accade, quando si lavora in presenza, che finisca lo spazio o che non tutti riescono a vedere cosa c’è scritto; chi si alza per avvicinarsi fa perdere un po’ il filo a chi è rimasto distante. Da remoto potremmo usare una piattaforma come Miro, e avere tutto a un palmo di naso.
L’efficacia dipende dall’abilità del facilitatore di raggiungere l’obiettivo prefissato nei tempi e con le risorse che ha a disposizione. Direi dunque: business as usual, si tratta di disegnare un workshop, e credo non ci sia nulla di più difficile.
Bisogna avere una miscela di scienza ed arte, e soprattutto tanta esperienza, per essere capaci di tirare fuori il massimo dal gruppo di lavoro, tenendo conto dei limiti di tempo e di risorse, tra cui il fatto di lavorare in remoto.
Ho avuto la fortuna di vedere all’opera molti facilitatori davvero bravi e conservo i loro insegnamenti su come si progettano, conducono e “portano a casa” i workshop. Che l’obiettivo sia fare discovery, co-design o envisioning, il tema dell’efficacia rimane lo stesso, e la si ottiene con un mix di progettazione e capacità di surfare l’emergente, ovvero l’outcome imprevedibile che può venire fuori da un gruppo di persone.
Hai la responsabilità di ricavare il massimo valore possibile dall’equivalente, sommate le ore uomo, anche di settimane di lavoro!
All’atto pratico, per diminuire il rischio di avere persone che perdono focus durante il workshop a causa della distanza, e tenendo conto degli specifici obiettivi, si possono organizzare incontri virtuali con durate più brevi, distribuiti in giornate ravvicinate.
Si potrà continuare a scegliere se comporre i sottogruppi di lavoro prima o durante il workshop e a decidere come il facilitatore possa passare da un sottogruppo all’altro.
Al momento, insomma,la tecnologia sembra capace di garantire una sorta di ubiquità.
Ci sono anche dinamiche di gruppo che proseguono dopo, una volta che il workshop è finito. Mancano ancora, al momento, i banchetti per fare il coffee break, con i dolcetti e le bevande, ma sono certo che ci attrezzeremo anche su questo, se dovessimo continuare ancora da remoto.
💡 Incontra Stefano virtualmente. Puoi approfondire la metodologia Design Thinking applicata ai remote team seguendo il digital meeting “Smart Working: codesign nei team virtuali”.
👉 https://bit.ly/design-thinking-smart-working
L’efficacia del Design Thinking nei team da remoto