Disegnare il coworking a Roma, tra artisti e rigenerazione urbana
alandd via Visualhunt / CC BY-NC-SA
Questo mese ho voluto intrattenere te che leggi Spremute Digitali, raccontando un’esperienza o meglio, la storia di un coworker anomalo.
Presentarsi come coworker: cosa vuol dire?
Qualche tempo fa mentre partecipavo ad una conversazione, mi è capitato di sentire uno dei partecipanti definirsi “coworker”. Mi sono incuriosita perché l’autore della dichiarazione è l’artista della mostra fotografica che stavo visitando. Trovando il modo di definirsi molto interessante per un artista, decido di approfondire organizzando un’intervista, per “indagare” la sua esperienza come artista e lavoratore.
Il protagonista della nostra storia è Mattia Morelli, un giovane fotografo nato a Bari e cresciuto a Lecce, ma formatosi in varie città d’Italia: tra l’Accademia di Belle Arti a Torino e la specializzazione in fotografia presso l’Accademia di Bologna. Attualmente vive e lavora a Roma, “città dalle molte potenzialità e con spazi di libertà d’espressione”. Si definisce un fotografo freelance. Di recente è stato autore della mostra “Microcosmiche affabulazioni”.
L’esperienza di coworking di un artista
Cominciamo la nostra chiacchierata con la mia domanda sul perché si sia definito coworker.
Il suo incipit mi sorprende:
Per questo lavoro serve trovare una sinergia con professionalità diverse nel campo della comunicazione: architetti, grafici, pittori, digital makers ed altre figure appartenenti alle arti visive in generale. Hai bisogno di stare in mezzo alle persone.
Mi spiega che non sa se formalmente può definirsi coworker, ma che leggendo del fenomeno si è ritrovato in molte delle descrizioni. Gli chiedo, dunque, di raccontarmi i dettagli per capire se siamo di fronte ad uno di quei casi, ormai sempre più rari, di coworking spontaneo (ovvero nato senza l’influenza di altre realtà o all’interno di una rete) per una categoria di “lavoratore” ancora non molto interessato dal fenomeno: l’”artista”.
Una sera ero a Testaccio alla Città dell’altra economia. Mentre passeggiavo, ho visto delle opere dentro uno spazio e le ho collegate ad una mia conoscenza. Così le ho scritto.
Si tratta di spazi del Comune dati in gestione a varie attività, per il tramite della Città dell’Altra Economia, tra cui Flatland studio, uno spazio creativo che riunisce professionalità quali l’architetto, il garden designer, l’ingegnere, l’operaio specializzato e altri collaboratori esterni. La collega gli propone di condividere uno degli spazi. Mattia accetta.
Dietro pagamento di una quota simbolica (ciò che mi farebbe pensare ad una forma di coworking pubblico, similmente al coworking Millepiani di Garbatella), la struttura mette a disposizione la connessione internet, ma un tipo di ufficio diverso da quello dei coworking a cui siamo abituati: non solamente spazio lavoro, ma anche uno spazio di esposizione, una vetrina di presentazione.
Ho avuto la possibilità di vedere, provare e presentare le mie opere allestite. È una rarità perché molti di noi lavorano a casa e devono accontentarsi di PC e simulazioni.
L’ambiente, mi racconta Mattia, non è fornito di particolari arredi. È composto da tre spazi tra loro comunicanti e da una galleria che si sviluppa orizzontalmente.
Nello spazio centrale eravamo io e la mia collega. Poi c’erano quattro architetti e uno spazio inizialmente vuoto che successivamente ha ospitato altri pittori e scultori. La galleria era a disposizione per allestimenti, esposizioni ed eventi (per alcuni mesi abbiamo ospitato, ad esempio, un’importante produzione web). C’erano dei responsabili che non lavoravano però nello spazio. Tra di noi avevamo una figura di “ coordinatore”.
Nella struttura crescono a mano a mano conoscenze e collaborazioni, ci sono momenti di svago condivisi. Mattia mi racconta che insieme ad alcuni ospiti della struttura hanno provato a sviluppare progetti, alcuni avviati altri rimasti idee.
Lo spazio di esposizione è stata una vetrina utile – mi spiega – hanno, ad esempio, organizzato degli studio visit invitando galleristi, curatori e possibili committenti. Attività che se stai a casa non puoi fare – osserva.
Gli domando se è soddisfatto dell’esperienza. Mi risponde:
Si, è servita per relazionarmi con persone del mio campo; è stato un continuo scambio di pareri; utilissimo anche a livello motivazionale. Forse un limite è la concorrenza che si genera tra lavoratori/artisti dello stesso settore, ma molto dipende dalle persone.
Quando l’esperienza è turbata da fattori esogeni?
Dato il ripetuto utilizzo del tempo passato, provo ad indagare sulla “fine della storia”.
Mattia mi racconta che a Maggio dello scorso anno, il Comune nega il rinnovo dell’autorizzazione all’utilizzo degli spazi da parte della Città dell’Altra Economia. È quest’ultima a cui Flatland riconosce un canone per il comodato d’uso, a cui a sua volta contribuiscono i lavoratori come Mattia.
C’erano in ballo progetti con associazioni, poi falliti. Il periodo coincide con il commissariamento di Roma Capitale. Hanno mandato via tutti, anche le cooperative e le altre attività – racconta – Eravamo un gruppo di dieci ragazzi che volevano fare e hanno subìto una decisione dall’alto. Non chiedevamo nulla. Solo uno spazio.
Con una semplice, ma efficace affermazione Mattia riassume complicati problemi di policy:
Lasciateci lo spazio tanto:
-Non ci sono alternative valide
-È un capriccio
-Sarebbe una cosa buona per Roma
-Sarebbe un’alternativa valida per il quartiere Testaccio.
Al di là delle implicazioni giuridico-legali, su cui la nostra conversazione sorvola (ma che troverei interessante approfondire), Mattia esprime le opinioni di un giovane lavoratore “atipico” (perché artista), estraneo alle decisioni di vertice, ma che si vede privato di una delle poche alternative per il suo lavoro a Roma.
Non è vero che l’arte è morta o che il fermento artistico non c’è più nella città: musica, cinema, fotografia, pittura. C’è una fortissima voglia di riappropriarsi della libertà di espressione. Quello che manca è un territorio pronto ad ospitare. Di alternativo per un lavoratore giovane in questo campo c’è poco.
Mattia mette in luce due problemi: la scarsa comunicazione intergenerazionale tra circolo artistico di nicchia e nuove menti e l’importanza della cerchia di conoscenze. Ecco perché, per superare tale situazione sarebbero necessari più spazi di lavoro condivisi, a prezzi modesti e adatti alle esigenze di esposizione.
D’altra parte, afferma Mattia: «Grazie ad un amico programmatore ho messo in piedi il mio sito, pago da solo i miei biglietti da visita e molto altro. Grazie alla tecnologia io, come molti altri miei coetanei e colleghi, siamo diventati più indipendenti per la produzione e creazione dei prodotti e progetti, ma di sicuro se non vi sono luoghi dove presentarli e presentarsi rimangono opere destinate ad avere ben poca diffusione. Pertanto avremmo bisogno solo di più spazio per esprimerci». In questo suo cambio dal singolare al plurale, avverto un sentire comune.
Per concludere gli domando dove lavora adesso. Mi confessa: «Da casa. Cerco uno spazio. Io ci sarei rimasto lì». Sta cercando altri ambienti, provando nuovi coworking. Per ora la sua ricerca continua.
Il coworking artistico di Roma
La storia di Mattia ci permette ancora una volta di collocare il coworking sia all’interno dello smart working, in particolare per le opportunità di condivisione di spazi, conoscenze e relazioni, sia all’interno della smart city, come potenziale elemento di rigenerazione urbana.
Sullo spunto dell’esperienza appena raccontata ho deciso, dunque, di fare una piccola verifica per voi. In un articolo e in una recente indagine curata da Enea sul coworking (presto disponibile alla pagina del progetto Smart working X Smart cities), si rilevano sessantadue esperienze sul territorio di Roma Capitale. Utilizzando le informazioni raccolte, ho osservato una buona presenza di spazi dedicati al maker nell’elettronica, alle arti, al cinema e alla fotografia. Dimostrazione che lo spirito artistico e creativo di Roma è in fermento.
Anzi, questo peculiare tipo di coworking dedicato alle arti espressive sembra distinguere Roma da Milano. Qui il fenomeno rimane legato ad un coworking più tradizionale basato su startup di business e lavoro di ufficio (anche se il coworking Mare culturale urbano fa la sua differenza, grazie alle attività svolte al suo interno).
In particolare, a Roma si contano diciotto iniziative tra cui ricordo, a titolo di esempio, C.O.H.O. Loft, Cowall, Famocose, If Roma, Immaginario collettivo, La situazione, Lab174, Let’s make, Maple, smART Polo per l’arte, Studio Macchinette, Coworking visiva.
Confermando i dati dell’indagine sopra ricordata, anche in questo campo le iniziative che utilizzando spazi privati sono quasi la totalità.
La differenza rispetto a questa impostazione la fa l’Emilia Romagna, la quale recentemente si è attivata per mettere a disposizione spazi pubblici ad iniziative di promozione del lavoro giovanile. L’approccio adottato dalla regione, si legge nella ricerca Enea: «è quello che appare più in sintonia con il fenomeno del coworking perché, raccogliendo richieste che nascono dalla società, soprattutto da centri di aggregazione giovanili, si presta a trasformare luoghi che per anni sono stati considerati incubatori del disagio giovanile e spazi destinati ad attività di assistenza per adolescenti in difficoltà, in ambiti in cui cresce la cultura d’impresa, si promuove innovazione, si sviluppano nuove startup e nuove forme lavorative».
Dovremmo chiederci, dunque, qual è e quale dovrebbe essere il ruolo dell’amministrazione. Il riutilizzo dello spazio e del “bene” pubblico potrebbe rappresentare un buon punto di partenza, soprattutto per il lavoro giovanile e la dimensione artistica di Roma capitale, alle prese con la concorrenza di altre capitali europee.
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