Corporate Innovation
Nella Social Innovation, così come in qualsiasi altro ambito, per fare davvero la differenza, un’azienda deve identificare e comunicare il proprio purpose, ovvero la ragione per cui esiste.
Avere bene in mente il perché della propria esistenza permette alle imprese di portare valore ai clienti, differenziarsi dai competitor e comunicare il proprio brand.
Lo scopo è quindi la risposta alle domande: “Chi siamo?”, “Perché esistiamo?”, “Cosa sta alla base del nostro agire?”, “Cosa ci spinge a continuare a innovare?”.
Se queste riflessioni, però, fino a ora hanno avuto una connotazione prevalentemente business, oggi non è più possibile scinderle da valutazioni e considerazioni di tipo più prettamente sociale.
L’era che stiamo vivendo ci impone, infatti, di fare la nostra parte di fronte a sfide e problematiche mai viste in precedenza: cambiamento climatico, scarsità idrica, disuguaglianza sociale, cambiamenti demografici, pandemie.
Dato che tutti questi fenomeni hanno impatti e ripercussioni sia sull’economia che sulla società, non possono essere trascurati ogni qual volta un’azienda decida di mettere in campo progetti o iniziative di innovazione aventi come scopo il cambiamento o l’evoluzione dello status quo.
Queste tematiche di sostenibilità sociale e ambientale hanno, negli ultimi anni, ottenuto una sempre maggiore attenzione, tanto che oggi non è più possibile pensare a purpose e innovazione senza tenere in considerazione l’impatto che questi generano e il contesto in cui avvengono.
Si è dunque arrivati a parlare di Social Innovation, ovvero quell’innovazione esplicitamente volta a risolvere bisogni di tipo sociale.
Se, però, da una parte, gli innovatori sociali sono guidati da forti valori e dalla volontà di avere un impatto positivo, è altrettanto vero che esistono numerose complessità che rallentano l’applicazione e la diffusione di innovazioni sociali.
In uno studio del 2012 promosso da The Danish Technological Institute e The Young Foundation, viene evidenziato come esistano diversi impedimenti nel processo di trasformazione delle idee in impatti sociali. Questi impedimenti possono essere raggruppati in due differenti cluster:
Le barriere degli innovatori sociali sono, quindi, fattori sui quali è possibile intervenire in maniera attiva. Tra questi troviamo difficoltà di cooperazione e coordinamento, il tasso di fallimento delle organizzazioni e dei singoli agenti e la scarsità di risorse.
Di seguito, la sintesi tratta dallo studio del 2012 precedentemente citato:
I complessi problemi legati al coordinamento e alla governance degli innovatori sociali, alla misurabilità del fenomeno, all’avversione al rischio e all’assenza delle giuste risorse economiche, condizionano frequentemente la diffusione – e in molti casi l’avvio stesso – dell’innovazione sociale, spesso frammentata e di rilevanza non sempre significativa.
Per far fronte a queste criticità, Chalmers suggerisce un approccio aperto, quello dell’Open Innovation, che invita appunto le organizzazioni ad aprirsi verso l’esterno, oltre i propri confini, per innovare e cercare soluzioni insieme ad altri attori dell’ecosistema.
Con riferimento alle barriere tipiche della Social Innovation, l’adozione dell’Open Innovation come metodologia permetterebbe di:
La Social Innovation non può più, quindi, essere intesa come un campo isolato: il superamento degli ostacoli che frenano il suo sviluppo passa attraverso un approccio all’innovazione più aperto e collaborativo, disegnato e impostato per coinvolgere più attori simultaneamente, stimolando l’interazione tra settori e ambiti differenti.
Si arriva, così, in maniera quasi naturale, alla Coalescence Innovation, un approccio all’innovazione caratterizzato da complementarità tra Social e Open Innovation: la Social Innovation come purpose dell’organizzazione e l’Open Innovation come metodologia per innovare.