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Scopriamo l’ecosistema startup con i co-direttori del Founder Institute Italy

Lorenzo Ermigiotti Pubblicato: 19 Aprile 2022

founder institute italy

Tutti parlano di ecosistema startup, ma in pochi sono veramente in grado di fare startup. Soprattutto in Italia. Il Founder Institute – FI, nasce proprio per questo; per aiutare aspiranti imprenditori a lanciare imprese di successo. Lo raccontano bene in questa intervista due dei co-direttori del Founder Institute Italy.

Indice
Cos’è il Founder Institute

Cos’è il Founder Institute

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Il Founder Institute nasce per aiutare aspiranti imprenditori a lanciare imprese di successo.

Il Founder Institute nasce nell’ormai lontano 2009 grazie ai due founder Adeo Ressi e Jonathan Greechan, fino a diventare il primo acceleratore di idee e programma di avvio di start up al mondo. Ma è soprattutto un network mondiale di start up e mentor, per aiutare aspiranti imprenditori a lanciare imprese di successo, attraverso programmi di incubazione.

Verso la metà del 2010, Il Founder Institute aveva chapter in dieci città in tutto il mondo, tra cui New York , San Diego , Berlino e Singapore. Nel 2012 si arriva ad avere il chapter Italiano grazie a Nicola Mattina e Giuliano Iacobelli. Da quel momento in poi l’Italy Founder Institute diviene il più grande acceleratore di startup pre-seed del mondo, e aiuta aspiranti imprenditori, imprenditori individuali e piccoli team a ottenere trazione e finanziamenti iniziali.

In questa intervista, invece, conosciamo gli attuali co-direttori del Founder Institute Italia: Rosbeh Zakikhani e Francesco Fullone, (e quest’anno ce n’è anche un terzo ed è il nostro Andrea Solimene, co-founder di Seedble) e ci facciamo raccontare da loro qualcosa in più.

La parola a Rosbeh Zakikhani e Francesco Fullone: due dei tre co-direttori del Founder Institute Italia

L. E. Ciao Rosbeh e ciao Francesco, vi ringrazio per essere qui su Spremute Digitali. Rompiamo il ghiaccio e raccontatemi un po’ di voi: cosa fate nella vita e come vi siete avvicinati al mondo delle start up? Partiamo da Rosbeh.

Rosbeh Zakikhani, co-direttore Founder Institute Italy
Rosbeh Zakikhani, co-direttore Founder Institute Italy

R. Z. Ciao Lorenzo, sono molto contento di essere qui. Io nella vita faccio l’imprenditore, è da qualche anno che lavoro come esclusivamente nel mondo dell’innovazione digitale, e la mia ultima avventura è stata un’azienda tech in Inghilterra con sede operativa in Italia, che si chiama Deep Hound.

Sono qualche annetto, comunque, che mi occupo di innovazione digitale, diciamo da oltre 15 anni, con varie esperienze lavorative. Ho vissuto in prima persona l’esperienza dell’esplosione delle telco in Italia e nel mondo, tutta quell’innovazione che passando per il mobile spostò la visione pubblica dall’usare il computer fisso dentro casa, dentro l’ufficio alla mobilità. Quell’esperienza mi è stata preziosa, mi ha fatto appassionare sempre di più al mondo dell’innovazione.

Qualche anno fa a un incontro durante un evento, ho conosciuto i rappresentanti del Founder Institute. Mi spiegarono questo progetto fantastico. L’evento in questione era Blast, un evento dedicato alle start up in Italia che organizzai con altre persone per portare visioni da tutto il mondo verso un ecosistema che era ancora giovane nel nostro paese.

In quell’occasione conoscemmo tantissimi esponenti di acceleratori e start up e ci rendemmo conto della differenza che c’era tra l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo nel modo di affrontare le start up; in Italia per esempio è più tradizionale, legato all’industria direzionale, all’imprenditoria relazionale.

Mi appassionai tantissimo, mi piacciono molto le sfide e quindi intanto iniziai un mio percorso di imprenditoria nel mondo delle start up, sfociato poi nel 2018 in Deep Hound. Il percorso è stato lungo, ho iniziato con le mie sole competenze e ho studiato, davvero tanto. Cercavo informazioni su qualsiasi cosa: su come funziona il mondo del venture, come funziona il mondo delle start up, delle scale up, come funziona il mondo delle start up digitali… Mentre lo facevo mi rendevo conto di trovare informazioni scarse o molto differenti tra loro, e questa cosa mi mandava letteralmente in confusione.

Adesso, come co-direttore del Founder Institute Italia dal 2017, ormai il dare informazioni chiare e precise è diventata una priorità, perché rappresentiamo un’entità, un pre-acceleratore e, quindi, facendo parte dell’ecosistema ne abbiamo il dovere. Sono convinto che abbiamo visto ancora molto poco in Italia. Abbiamo parlato tanto, sta finendo il periodo della fuffa, sta iniziando il periodo dei risultati e la passione cresce in realtà, più che diminuire.


Se vuoi, grazie alle nostre Audiospremute, puoi anche ascoltare l’intervista a Rosbeh Zakikhani e Francesco Fullone.


L.E. Questo è molto bello. E tu, Francesco?

Francesco Fullone, co-direttore Founder Institute Italy
Francesco Fullone, co-direttore Founder Institute Italy

F.F. Non so se sono capace di raccontare tutto come ha fatto Rosbeh, ci provo. Sono un imprenditore anch’io, ho iniziato abbastanza giovane, ho aperto la mia prima azienda a 19 anni e parliamo del 97/98, ed era uno studio associato in cui progettavano sia l’esperienza digitale che quella di design, di usabilità, accessibilità di capannoni industriali e negozi, fino a cablare i data center all’interno dell’azienda stessa.

Diciamo che eravamo un po avanti nel tempo. Poi ho avuto un po’ di esperienza come consulente e ho messo in piedi molti dei siti editoriali di quel periodo di grandi imprese, e ho deciso a un certo punto di rifare l’esperienza imprenditoriale aprendo un’azienda. Lì ho conosciuto il fantastico mondo delle start up.

Mi sono avvicinato alle start up come technical advisor per aiutarle su tutti quei temi di crescita, non solo tecnologica, ma per far scalare le infrastrutture, il software, la crescita delle persone sia da un punto di vista culturale, metodologico che da un punto di vista numerico… In pratica come aiutare una start up a crescere.

E quello che ho fatto negli anni con la mia azienda è stato anche quello di aiutare a formare i team interni alle start up, in modo da renderle totalmente autonome una volta validato il modello di business e la possibilità di mettere a terra un determinato tipo di tecnologia. Da lì ho continuato a lavorare con diversi incubatori, tra cui anche Fabric come mentor, fino a quando sono stato coinvolto nella prima edizione italiana del Founder Institute come mentore e advisor.

Mi sono innamorato di quello che era il modello del Founder Institute e ho continuato a collaborare fino ad aprire il chapter bolognese, penso in uno dei periodi peggiori della storia, tant’è che non è mai partito ed è stato subito inglobato in quello italiano. Sono diventato co-direttore insieme a Rosbeh nella scorsa edizione del Founder Institute Italy, ho continuato comunque anche come imprenditore, lavorando all’apertura di diverse aziende.

Sono uscito dalla mia azienda principale e ho imparato che, almeno per me, è molto più divertente fare il socio imprenditore e non il dipendente di me stesso. Quindi ho fatto un passo indietro dall’essere operativo nelle aziende, a lavorare più come advisor interno per permettere di scalare. Che poi è anche un po’ quello che si impara nel programma del Founder Institute stesso, cioè come far nascere le aziende, farle crescere e allontanarsi, per permettere alle start up stesse di evolversi ulteriormente, rimanendo comunque nella parte di visione, mantenendo quelli che sono i valori aziendali e ricordandoli un po’ a tutto il team.

L.E. Ecco, questo è un tema interessante perché date anche le difficoltà che ci sono in Italia a fare impresa, non vi vorrei chiedere un confronto fra l’ecosistema Startup Italia e il modello americano. Però, realisticamente, cosa portereste dalla Silicon Valley in Italia se poteste?

F.F. La possibilità e l’abilità di fallire. Nel senso che in Italia gli imprenditori hanno il terrore folle di non riuscire nella loro idea di impresa e quindi non cercano di fare quel qualcosa in più, quella sfida, anche di invalidare la propria idea. Uno dei punti cruciali nel fare impresa, ma soprattutto nel fare start up, è il non innamorarsi delle idee, ma innamorarsi del processo di validazione e invalidazione delle stesse per trovare sempre quel qualcosa di nuovo che combaci con quella che è l’esigenza di mercato.

Oggi molti imprenditori non crescono perché sono innamorati perdutamente della propria idea, sono innamorati perdutamente della propria azienda, però non vedono che questo li blocca anche dal poter prendere delle decisioni innovative o che li potrebbero far crescere su diversi ambiti in maniera più rapida.

Allo stesso tempo chi investe ha il terrore di fare investimenti in aziende che non portano immediatamente un qualche rientro economico, e però quello non è un investimento, almeno dal mio punto di vista, vai allora sui Btp. È molto meglio investire, diversificare l’investimento, sapendo che alcune delle start up non andranno bene, così si darà la possibilità ai founder di queste start up di poter testare, validare, invalidare il proprio modello di business e fallire, anche perché tanto è nell’essere imprenditori il poter gestire questo.

L.E. Certamente, ma è anche una questione di quantità di capitali che girano, che magari fanno percepire in maniera diversa il fattore rischio?

F.F. Ma guarda, dal mio punto di vista, nella fase di crescita assolutamente sì. Però nella fase di validazione dell’idea assolutamente no. Puoi invalidare la tua idea con bassissimi capitali, con un pitch scritto bene, facendo le domande corrette, facendo i test di mercato corretti, senza neanche mettere a terra la tecnologia.

Nella mia passata esperienza da tecnico, la prima cosa che cercavo di fare e dove cercavo di convincere i miei clienti era che non c’è bisogno di tecnologia per validare una tecnologia. Bisogna valutare il modello di business di tale tecnologia, poi la tecnologia è un di cui abilitante a far scattare questo modello di business, quindi nella fase iniziale non servono grandissimi fondi.

Poi, nel momento in cui hai validato l’idea, allora lì sì che servono i fondi, e servono dei venture che facciano i venture, raccogliendo e distribuendo non i 20.000€ che vediamo in Italia. Fortunatamente mi pare che negli ultimi anni la cosa stia migliorando anche con due round importanti anche in fase di seed e pre-seed, quindi non vedo solo nuvole all’orizzonte, ma anche qualche spiraglio di luce.

L.E. Sì, il vento sta cambiando. Tu Rosbeh, se dovessi rispondere a questa domanda, cosa pensi che nello specifico manchi ancora all’Italia per costruire la propria Silicon Valley?

R. Z. Intanto il primo errore che secondo me si fa è pensare che un ecosistema startup funzionante si debba riferire al modello della Silicon Valley. La Silicon Valley è un grande esempio storico di come l’asset digitale, come l’industria digitale, avesse un grande potenziale. Ha dimostrato il suo potenziale, tant’è che nella Borsa americana, i primi 50 titoli per la maggior parte ormai sono titoli digitali e vent’anni prima erano titoli industriali.

Quello che manca, e faccio riferimento anche alla risposta che ha dato Francesco, nell’imprenditoria italiana è proprio la differenza di mentalità. La differenza di mentalità che si nota quando mentalità simili a quella della Silicon Valley o comunque con le loro caratteristiche peculiari, hanno funzionato. Faccio l’esempio della Cina, esempio di molti paesi europei in cui la differenza l’ha fatta il cambio di mentalità.

E, riferendomi a quanto diceva Francesco, ad esempio la mentalità del fallimento, la capacità di fallire, e anche la capacità di avere successo, fanno parte della mentalità anglosassone, ad esempio, in cui non è visto culturalmente come un errore la volontà o l’azione personale di voler arrivare al successo. E il fallimento non è visto come un problema, anzi è visto come parte del percorso, perché se non provi non fallisci. Ci sono tantissime esperienze in merito. Anche io la mia prima azienda la feci a 19 anni e lì mi mancavano completamente le competenze finanziarie per aprire un’azienda, mancava completamente la cultura di fare imprenditoria, nessuno me l’aveva data.

Quello che manca all’Italia e che dovrebbe importare dalla Silicon Valley, o comunque guardando agli altri eco-sistemi funzionanti, è proprio un fatto di mentalità. Cioè dobbiamo capire che, come diceva Francesco, fare una start up è fare un’impresa, è un’operazione. Non è costruire la propria azienda, diventare l’amministratore delegato di un gruppo industriale; qui si tratta di fare un’operazione intorno all’idea, intorno a un modello di business innovativo, nuovo. Per farlo serve metodo, servono competenze, ma serve anche la mentalità nell’ambiente in cui lo fai, e questo manca completamente in Italia.

Si sta costruendo piano piano, si sta costruendo anche qui con tantissimi falsi miti, cioè che l’azienda start up sia un’azienda che è basata sul cercare i capitali, non è solo quello. Tantissima fuffa che si è creata intorno nel trovare i capitali, quindi quando si parla di startup si parla solo di questo aspetto. Che non è secondario, ma nemmeno l’unico.

Si parla tanto, quando si parla di start up, di giovani, quindi, specialmente alcune azioni governative degli anni scorsi o la nascita di tutti questi fondi start up, sembra siano un metodo per collocare i giovani nel mondo del lavoro. Ma non è così, tant’è che le start up di successo hanno una media di founders che supera i 35 anni, e quindi non stiamo parlando di neolaureati. E tant’è che nella Silicon Valley stessa si sconsiglia a neolaureati di fare delle start up. Si dice di vivere di vita, fare esperienza, perché quello che serve è anche esperienza personale oltre alla competenza.

Apple Park Silicon Valley
Scorcio di Silicon Valley: l’Apple Park.

Il fatto che un Mark Zuckenberg o i fondatori di Google sono diventati famosi è proprio perché erano giovani. E questo loro essere giovani, questa loro freschezza nel portare un modello di business a un prodotto nuovo sul mercato digitale ha avuto un enorme successo, ha fatto scalpore. Qui è stato interpretato come se la start up è una roba che devono fare i neolaureati, che devi fare sotto i 25 anni, sotto i 30. Non è così e noi lo sconsigliamo.

La start up la possono fare i cinquantenni, la possono fare i ventenni. Il valore della start up è il progetto, la competenza del team che viene messa intorno, la visione e fondamentalmente la validazione del modello di business; quindi, se vogliamo dirla tutta la cosa che conta di più è la velocità con cui si fa questa validazione e con cui la si immette sul mercato.

Poi si prova a far crescere, la velocità con cui si testa la saturazione del mercato di quel modello di business e quindi le reali capacità e le reali potenzialità di quel progetto. E quindi è anche giusto, in questo caso, dire execution. Io vedo che invece in Italia si tende a mitizzare e classificare un po tutto e comunque a relegarlo nello status di nicchia.

Quando vai in America o in Inghilterra, ma anche in Francia ultimamente, quello che vedi, è che quando si parla di start up si parla di qualche cosa che la gente anela, qualche cosa che la gente ammira, qualche cosa che le persone, i professionisti, le aziende vedono con piacere. Anche le famiglie che vedono i parenti, i figli o gli amici fare start up, li guardano con orgoglio, anche se un anno dopo fallisce. Non succede niente, bravo che ci hai provato e che lo hai fatto in così poco tempo.

In Italia invece è una nicchia, una nicchia relegata a tutta una serie di stereotipi. Le valutazioni, i racconti intorno alle start up… è tutto stereotipato. Ognuno trova la sua keyword e ci si appoggia, ma c’è poca volontà di approfondire e poca volontà di uscire da tutta una serie di bias che in Italia ci portiamo in tutti i settori, non solo in quello start up.

Far emergere un ecosistema innovativo in una nazione che in qualche modo ha difficoltà a modernizzarsi ed evolversi, a crescere e ad accettare nuove visioni, nuove mentalità, è problematico.

L.E. Sì, assolutamente. Ho capito da quanto mi avete raccontato finora che a spingervi in questo percorso è una visione chiara, volevo capire come il Founder Institute ha matchato con questa vostra visione. E poi anche la scommessa che avete fatto, magari ripartendo da Francesco e poi sentire di nuovo Rosbeh.

F.F. La mia personale vision sulla partecipazione del Founder è quella di aiutare la creazione di una nuova generazione di imprenditori, dove generazione non è “i ventenni o i trentenni” come diceva Rosbeh, ma persone capaci di fare gli imprenditori, di imprendere a tutti i livelli, cosa che non tutti sanno fare. Un po’ perché nella nostra cultura manca l’insegnamento di base di cosa significa fare impresa.

Molti ci arrivano per vie traverse, perché ci si ritrovano nelle imprese di famiglia, o per letto nei libri scolastici, quando il mercato è abbastanza diverso da quello che c’è scritto nei libri scritti negli anni ’60. E quindi la mia vision è proprio questa: il permettere la creazione di nuovi punti di riferimento in Italia per poter creare impresa, e che magari daranno ulteriore lavoro in tutto quello che è il sistema impresa e start up in generale.

L.E. E in che modo il Founder Institute sposa questa visione?

F.F. Lo sposa per il modello di insegnamento, come dicevo prima. Insegna a non innamorarsi delle proprie idee, ma a lavorarci per invalidarle. E invalidarle significa imparare a gestire i dati oggettivi non solo di pancia, quindi capire cosa è uno studio di mercato, cosa significa muoversi sul mercato o come parlare con i propri futuri clienti, cosa significa fare un’operazione di marketing. Insegna a tutti i livelli quali sono le attività di base da dover fare.

Poi sta al singolo capire dove vuole approfondire di più e andare oltre, o dove delegare trovando dei co-founder su cui operare. E penso che questa sia una grande forza, perché non stiamo parlando di fare un MBA in tre mesi che sono cose diverse, ma stiamo parlando di capire le basi della validazione, capire quali sono le basi della creazione di un modello di business a tutti i livelli e fare esperimenti senza la paura di fallire, per comprendere dove e come migliorarsi su questi aspetti.

R. Z. La mia vision è molto semplice e molto pragmatica. Io sono convinto che anche in Italia ci siano grandi idee e grandi imprenditori. Quello che manca per fare start up e fare venture è un metodo e una metodologia, è un fatto di approccio e manca tanto spirito internazionale.

Quindi la mia visione è semplicemente quella di formare, di dare gli strumenti a nuovi imprenditori o a imprenditori che si affacciano a un sistema diverso, un sistema che non conoscono, probabilmente, che ha le sue regole. Sono sicuro che cresceranno, sono sicuro che si formeranno nuovi imprenditori che magari non faranno start up, ma avranno idee chiare su come fare anche altro, perché non è detto che debba per forza nella vita fare delle start up digitali.

Che siano in grado di fallire col sorriso e con metodo e quindi sapere che il fallimento non è loro personale, ma fallimento di un idea, di un progetto, di un mercato, di un modello di business o qualsiasi altra cosa. E sono convinto che nei prossimi anni vedremo crescere delle venture e delle start up digitali anche in Italia, un paese che ne ha bisogno. Ha bisogno di smettere di perdere queste opportunità come le ha perse negli ultimi vent’anni. Per cui è un’economia che ha bisogno di cambiare, ha bisogno di una svolta, ha bisogno di qualcosa di diverso.

Quello del digitale non è una nicchia. Nel resto del mondo è quello che ormai guida l’economia globale insieme a un paio di altri fattori che possono essere il gaming e la salute. Avrà bisogno di internazionalizzarsi e la nostra mission è che tutto questo succeda con un metodo e con un approccio giusto, un approccio informato e competente, con una metodologia validata.

E quello che fa il Founder Institute non è proporre un modello, un approccio, metodologia scritta undici anni fa, quando è nata e poi fissata con il fuoco sulla pietra, ma almeno 2 o 3 volte l’anno viene modificata, ampliata e aggiornata alle esigenze moderne, grazie alle esperienze che abbiamo fatto in passato.

Vorrei vedere questi nuovi imprenditori, sia del Founder Institute che no, cominciare a far parte di un ecosistema che non è italico, italiano che parla solo italiano e si parla addosso, ma a un ecosistema internazionale perché poi è quello il destino di una start up che cresce. Mi piacerebbe vedere che queste start up, però, al momento in cui diventano internazionali, non spostano la loro sede, non scappano all’estero, ma continuano a operare qui dall’Italia.

Alcune cose possiamo farle noi, possiamo dare un metodo, possiamo dare una visione, possiamo dare una metodologia, una guida. Purtroppo non possiamo fare tutto da soli, serve la collaborazione dell’ecosistema intero, serve la collaborazione degli enti pubblici. Sta succedendo, piano piano succederà anche quello. Nel frattempo sarebbe bello vedere qualche risultato importante nei prossimi anni. Non solo di racconto, perché purtroppo ci sono tanti risultati non risultati, ma che raccontati bene ai più sembrano grandi successi.

L. E. È incoraggiante e ben augurante. Vi ringrazio tantissimo per il vostro tempo. È stato un vero piacere.

R. Z. e F.F. Ciao A tutti e grazie!