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Discorsi sul metodo: Fake News e Real Engagement

Riccardo Malaspina Pubblicato: 6 Maggio 2021

Fake news, Discorsi sul metodo

Recentemente è stata la giornata mondiale per la libertà di stampa, una celebrazione che ha una importanza e un peso a livello istituzionale spaventoso. Esatto; la sua funzione primaria è quella di potersi riempire la bocca di attivismo almeno una volta l’anno. È come ne “Il Gobbo di Notre-Dame” con la festa dei folli. La seconda funzione è quella di garantire uno scudo impenetrabile a tutti quelli che desiderano poter scrivere qualsiasi cattiveria sullo spazio digitale.

Ok facciamo marcia indietro. La giornata della libertà di stampa è un atto fondamentale di empowerment e collaborazione tra tutti i paesi liberi di garantire un giusto mezzo ad ogni individuo; ne abbiamo già parlato, ed è fondamentale. Cosa c’entra con le fake news? Partiamo dalla fine: persone non proprio gentili si arrogano, attraverso il gioco sulla libertà di stampa, la facoltà di dire qualsiasi cosa essi vogliano senza conseguenze.

Una retorica sentita più e più volte sul web, che va a costituire un apparato di de-responsabilizzazione considerevole.

Se posso dire qualsiasi cosa, se dico qualcosa di sbagliato, devo pagare? Anzi, la domanda diventa questa: chi definisce lo sbagliato?

E se la diffondessi? Quanti danni causerei agli altri? Quanto ne guadagnerei?

Torniamo all’inizio.

Fake News: cosa sono?

Prima di tutto, qualcosa di fake inteso in questo senso non è falso perché sbagliato o mal interpretato. È falso perché deforma e distorce la percezione dell’evento attraverso artifici retorici non sempre evidenti.

Il primo errore che si fa nell’interpretare determinati eventi è pensare alle narrazioni che di essi vengono fatte, come a delle fotografie di neorealismo, (se qualcuno si ricordasse nei precedenti discorsi sul metodo, quando parlo di transmedialità alludo anche a questo), una narrazione che crea un’immagine mentale tale, da essere considerabile uno spaccato perfetto dell’accaduto.

Spoiler: ci sono dei filtri culturali. Sempre.

Non è questo però il punto.

Quello a cui voglio arrivare è che alcune delle più famose fotografie della storia del ‘900, come mezzi espressivi che rappresentano l’identità delle cose, guarda caso, sono state montate.

C’è solo l’apparenza dell’autenticità.

Chiunque abbia visto la famosa foto dei lavoratori dell’empire state building penserà che sia uno spaccato delle condizioni dell’epoca, ed in effetti lo era, ma è stato montato ad arte, per raffigurare il simbolo di quella condizione sociale.

Questo fa di quel report una fake news? No. Anzi, è comunque una grande testimonianza storica.

E allora, cosa rende le fake news tali?

La fake news è una sistematica diffusione, millantata come espressione con disinteresse, e che invece non lo è mai, di informazioni false o distorte.

Da ricordare: c’è sempre intenzione alla radice di una Fake News.

Queste sono costruite, dicevamo, con interesse, per potere, per destabilizzare quello che è il corretto utilizzo dell’informazione (generalmente nel mondo digitale). Le fake news si sono rivelate una poderosa arma politica, che influì particolarmente sul successo dei partiti populisti in Europa, o nel mondo, ma vengono usate anche da chi invece sembrerebbe intoccabile da esse.

Occhio: la fake piece of news non è di per sé retorica, anzi desidera sembrare il più fattuale ed oggettiva possibile. Non è di per sé connotata di ideologia politica, ma di solito le narrazioni strutturali alla base di esse ne narrano l’agenda.

Questo fa di loro delle macchine da sentiment perfette (questa frase me la immagino tantissimo ad un convegno di supercattivi, quale è il signor spiegone), sfruttando quella che è la meccanica dell’aggregazione social.

Una delle più grandi rivoluzioni del mondo social è che, per quanti ne dicano il contrario, si legge di più.

Certo, si legge di più e peggio.

Per occupare lo stesso tempo però, la lettura è, e deve essere, superficiale. Tant’è che i contenuti, soprattutto nella lettura online vanno semplificati almeno a livello linguistico per catturare l’attenzione.

Che succede dando queste condizioni di partenza? Proliferano i contenuti con sentiment più alto, quelli che diventano virali. E perché questo? Perché adesso si da meno peso distribuito in più articoli, e l’attenzione scende drasticamente.

Ora, complici alcuni giornalisti che in buona fede considereremo soltanto ingenui, la comunicazione giornalistica prende sempre più la forma di un Tweet con successiva spiegazione. (Non so se ti ricordi della primavera araba, ma Twitter giocò un ruolo fondamentale nelle rivolte e nella lotta alla repressione).

Un titolo ardito o azzardato, cattura l’attenzione. Non importa che il contenuto dica il contrario. Conta che il titolo si scrolli in bacheca sui social.
Sempre.

Ora: che cosa succede se mischiamo un algoritmo che accomuna le persone per interesse, delle notizie che creano interesse e delle persone che sanno chi e come toccare?
Otteniamo una comunicazione che smette di essere costruttiva e diventa la corsa all’accaparramento dei migliori confirmation bias, che di conseguenza diventano enormemente popolari sul web.

Questo però non ci porta ancora a parlare di Fake News per quello che sono.

Azioni volontarie. Quindi no, Ermenegildo che scrive sul suo forum naturista che la pasta cotta è allucinogena non va a creare una fake news, (anche perché in quel contesto ci sono suoi pari che lo possono contestare sul momento e hanno la sua stessa rilevanza).

Diffondere Fake News in sostanza significa: avvalersi delle dinamiche sociologiche del mondo digitale sopracitate, per far sì che queste attraverso una comunicazione tra “presunti” pari, non vengano riconosciute come la sequenza di sciocchezze, sempre in buona fede, che sono, ma che anzi, vengano legittimate come controinformazione.

Ovviamente per scopi lucrativi (in senso diretto e indiretto) a favore di chi le ha messe in giro, e ancor più ovviamente, nascondendo questo piccolo particolare.

Le Fake, hanno sempre tornaconto. Sempre

Fake News fu la macchina del fango.

Fake News sono gli antivaccinisti che distorcono le informazioni e manipolano i dati per convincersi di avere ragione, e si direbbe, in questo caso, che “Hey non è vero che ci guadagnano da questa cosa”.

Spoiler: Si.

Innanzitutto perché il guadagno può essere anche immateriale, anche una gratificazione psicologica data dall’aver smascherato le lobby farmaceutiche, ma ciò non toglie che i primi ad aver messo in giro determinate informazioni, ecco diciamo sempre ingenue per non dire false, lo fanno per il solito, classicissimo, vil danaro.

La manipolazione dello studio sulle correlazioni tra vaccini e autismo, per esempio servì a continuare il finanziamento, fu un esempio eclatante, ma ecco che se si scava ci sono anche dei ritorni non monetari che non possiamo vedere giustappunto subito.

Fatto sta che molta della comunicazione politica delle ideologie più radicalizzate e radicalizzanti passa attraverso questa circolazione tra pari di elementi distorti, arcani, confusi, bislacchi e un po’ fumosi.

La problematica non nasce infatti, dalla riconoscibilità testuale (o meno), che potrebbe averne una persona competente su quel tema; perché un qualunque Gianfilippo Scampiglioni del Rey, primario in medicina a Brembate Calabro potrebbe prendere i dati, dire, “Hey ma cos’è questa semplicistica visione del caso studio” e ripubblicare delle conclusioni corrette; ma anche se commentasse, o peggio, scrivesse un post sulla sua pagina personale per rispondere, sarebbe null’altro che un solipsismo. Il confirmation bias avrebbe già fatto il suo lavoro, facendo leva anche sugli elementi culturali di disfiducia nelle classi politiche ed economiche, e andando ad alimentare quello che è, come abbiamo detto, un sentiment autentico preso da fonti finte.

Il problema è che le persone che, ricordiamo, stanno manipolando i dati, sanno perfettamente che possono sfruttare come exploit il fatto di condividere il proprio sapere con persone che hanno precedentemente targettizzato e di cui conoscono le risposte aspettate, e qui rientrano in gioco i social, e gli algoritmi, e la gestione della privacy e tutte quelle questioni che rendono discutibile l’ignobiltà di una sola determinata classe di persone.

Pensate a come l’elezione americana abbia fatto scandalo con Cambridge Analytica ai tempi, che vendendo i dati degli utenti (profilati) influenzò i dati elettorali. Quello che voglio dire è che non necessariamente le persone che condividono fake news siano tutte incompetenti, anzi hanno magari proficiency in quello che fanno nella loro vita, solo che non conoscono questi meccanismi di diffusione.

In sostanza quello che fanno passare come “libertà di stampa, ci vogliono imbavagliare…” o un “Ki ti pagah” è un metodo malato per fomentare determinate reazioni politiche e sociali, e nella maggior parte dei casi, radicalizzare ancora di più i conflitti attraverso le dinamiche date delle piattaforme social, andando a giocare su dei vuoti legislativi e culturali.

Basti pensare, per avere un’idea di quanto grande sia il vuoto, che Twitter e Facebook sono state contemporaneamente accusate di aver causato problemi per la mancata censura degli eventi a Capitol Hill, e di aver represso le libertà personali arbitrariamente quando hanno agito, a distanza di una manciata di giorni. Sintomo che il problema non è stato proprio compreso a livello teoretico e nella sua complessità e che anzi, letteralmente, c’è stato un enorme scaricabarile a favore di una più semplicistica dialettica: fanno quello che vogliono perché sono una azienda/ci distruggono le libertà personali, e tutto quello che c’è nel mezzo, senza comprendere appieno il problema sociologico da esso scaturito.

Il bisogno di diffondere una cultura sulle fake news

Per concludere, senza poter dare, per mancanza di mezzi, una effettiva risposta sul tema, c’è bisogno di una diffusione di una cultura sulle Fake News per sensibilizzare le persone ad esse, ma c’è anche la necessità di una regolamentazione dall’alto per far sì che queste non vengano viste soltanto come la libertà personale di cui si millanta, ma anche nella loro vera forma, ossia come un potenziale atto offensivo della libertà altrui, (esatto, al netto di una retorica e pregna di un’altra suona ben diversa), cioè come un reato grave come la diffamazione o la frode, che non faccia però venir punita la persona che le condivide ingenuamente, ma chi ordisce e costruisce un sistema di comunicazione tale da farlo sembrare un passaggio di informazioni da persona comune a persona comune, per lucro.

Solo così la stampa potrà essere di nuovo libera, non solo dalle manganellate o dalle sparatorie, ma anche dall’interesse e dalla pressione utilitaristica. Un appello accorato a cambiare la risposta alla prima domanda, da No, non siamo liberi, a Sì, lo siamo.

La stampa, che arricchisce la nostra vita e ci permette di conoscere la vastità del mondo, negli ultimi anni è diventata l’obiettivo scelto, il nemico da eliminare proprio a causa della radicalizzazione dei conflitti dovute al cavalcare il sentiment da Fake news.

Non deve essere mai (più) così.