Corporate Innovation
“Vorrei spingere le mie persone a sviluppare idee e a risolvere problemi come se fossero degli imprenditori”. Questa affermazione risale a una conversazione fatta qualche mese fa con un manager – nome di fantasia, Carlo – che lamentava l’incapacità dei propri team di mettere a terra le idee e farle accadere.
In realtà, non mi ha colpito solo questa frase, a cui ormai sono abituato, ma la difficoltà manifestata dinanzi alla domanda: “Cosa effettivamente stai facendo per sbloccare questa situazione?”.
Carlo non mi ha risposto e ho colto in lui frustrazione piuttosto che rassegnazione, come successo in passato in altre occasioni. Quella conversazione anticipava un workshop ispirazionale sull’innovazione e sull‘intrapreneurship organizzato in azienda con altri otto membri del top management che Carlo aveva coinvolto, con lo scopo di attivare un confronto aperto e partecipativo.
Come di consueto, con l’ausilio di qualche post-it e dei pennarelli a punta larga, ho facilitato la sessione creando un ambiente collaborativo e raccogliendo le diverse prospettive sull’argomento. Risultato? Carlo ha inquadrato meglio le posizioni del team ed è riuscito a dare maggiori spiegazioni alla sua frustrazione.
Il team ha scoperto il potere del confronto approcciandosi per la prima volta al design thinking e sperimentando un nuovo metodo. Tutti siamo usciti da quella stanza con la consapevolezza di intervenire sul mindset imprenditoriale delle persone e sulla capacità di stimolare l’innovazione in azienda.
Innovazione e imprenditorialità sono due concetti che stanno bene insieme, ma non sempre sono collegati. Un innovatore può ideare e sviluppare qualcosa di nuovo o geniale, ma non essere capace di trasformarlo in impresa.
Un imprenditore è colui che fa impresa senza necessariamente partire dall’innovazione.
Una persona che sviluppa le proprie intuizioni portandole a idee innovative può impiegare le proprie capacità imprenditoriali nel trasformarle in progetti di innovazione e testarne la fattibilità sul mercato. In altri termini, laddove innovazione e imprenditorialità si incontrano, possiamo assistere alla creazione di business ad alto valore e impatto. Semplice da dire, complesso da fare.
Tutte le organizzazioni combattono per far emergere il talento delle proprie persone e, al tempo stesso, hanno paura di vedersi rubare quello stesso talento dall’esterno, competitor e aziende di nuova generazione. Bassa retention e alto tasso di turnover sono protagonisti dei peggiori incubi di ogni HR Manager.
Il boom delle dimissioni (volontarie) tra i giovani negli ultimi 2 anni manifesta l’incapacità delle aziende di trattenere talenti e offrire loro opportunità di esprimersi. La cosa ancora più assurda – e qui sono pronto a scommetterci ben più di una cena – è che gran parte di queste aziende non hanno mai realmente attivato delle iniziative per mantenere il talento internamente e metterlo a fattor comune per l’organizzazione.
Per dirla in parole molto semplici: non solo hai perso talenti, ma non li hai neanche sfruttati. Doppia beffa!
A questo proposito ti consiglio di leggere un altro mio articolo sul tema: I talenti hanno bisogno di veri manager
Tornando a Carlo, le parole trovano così maggior contesto. La sua frustrazione – e quella di tanti altri manager e leader – proviene da lontano e dall’incapacità dell’organizzazione di attribuire alle persone il giusto spazio.
Coltivare una cultura aperta all’innovazione è una sfida attuale che appartiene ai vertici dell’organizzazione, non esclusivamente all‘HR Manager.
A dire il vero, tutti giocano un ruolo chiave. Nelle organizzazioni moderne con potere decisionale distribuito, modalità di lavoro orientate ai risultati e maggior responsabilizzazione delle persone, e con una più ampia condivisione della conoscenza, i problemi non sono più solo del management. I problemi sono di tutti, perché tutti possono risolverli e contribuire con delle soluzioni.
Tempo fa lessi un interessante articolo dell’Harvard Business Review (2017) sul processo di evoluzione del gigante General Electric e di come l’allora CEO (Jeffrey R. Immelt) sia riuscito a cambiare un’organizzazione tradizionale e complessa come la multinazionale americana con più di 300.000 dipendenti.
Mi colpì questa sua espressione:
Nel mercato di oggi ti addormenti sapendo di essere un’azienda di prodotto, e all’indomani ti svegli che la tua azienda vende servizi.
Forte, vero? Lui è riuscito a trasferire questo messaggio, e la sua potenza, all’intera azienda puntando sul cambio di mindset e paradigma.
La storia di GE mi consente di porre l’accento sulla capacità dell’azienda – in primis del vertice – di rompere le catene del passato e sbloccare il potenziale, a volte sommerso, delle persone che possono determinare la sopravvivenza e l’evoluzione dell’organizzazione stessa.
Stimolare l’innovazione in azienda significa attivare quel talento sepolto che, in molti casi, è il motore per generare opportunità e trasformarle in business. Carlo – e altri leader che vivono questa situazione – devono investire nelle persone creando ambienti di lavoro in cui le idee possano trovare terreno fertile e, al tempo stesso, tutti gli elementi (metodo, competenze, strumenti) per germogliare. La priorità è trasformare i dipendenti in innovatori intraprendenti.
Intrapreneurship si traduce male in “imprenditorialità interna”, ma è ciò di cui ogni azienda ha bisogno: sbloccare il potenziale delle persone che desiderano innovare e mettersi in gioco.
Trovo molto interessante il contributo di Mark Coopersmith, imprenditore e docente di innovazione e imprenditorialità alla Berkeley, che sintetizza 10 tratti degli imprenditori di successo. Io ne ho aggiunto un undicesimo, secondo me fondamentale per costruire il futuro di un team. Ogni persona in azienda dovrebbe lavorare su questi tratti.
Se non vuoi che i tuoi talenti cerchino altri lidi felici o si mettano in gioco da soli con progetti di startup, l’imprenditorialità interna è l’unica arma che hai per trattenerli e costruire insieme a loro un futuro migliore per la tua organizzazione e per il loro percorso professionale. Anche Carlo lo sa.