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Smart working e donne italiane: perché ci fa (ancora troppa) paura

Guest Pubblicato: 27 Ottobre 2018

smart working e donne italiane

I dati parlano chiaro: nonostante lo Smart Working si stia facendo largo anche da noi e nonostante i feedback positivi dalle realtà aziendali che lo stanno applicando, a livello culturale permane una notevole diffidenza proprio nel segmento che, in potenza, ne beneficerebbe di più: le donne.
Un paradosso apparentemente difficile da dirimere: ecco che allora, penso possa risultare molto utile offrire al dibattito la mia esperienza di lavoratrice che insegue da sempre la flessibilità e ha trovato un equilibrio tra professionalità e famiglia proprio grazie ad una modalità smart.
Premessa: non credo nel worklife balance in senso stretto e la parola multitasking mi fa venire l’orticaria. La verità è che, soprattutto per le donne, la coperta è sempre troppo corta e la sensazione di essere equilibristi del quotidiano accompagna le giornate di tutti.
Nonostante questo, credo molto nello Smart Working e proprio perché ne vivo i benefici e mi sento fortunata, vorrei accendere i riflettori anche sugli aspetti che possono creare un ostacolo mentale e una diffidenza nelle mie “colleghe” di ventura.


“Le donne possono avere tutto, ma a volte, non contemporaneamente”


Quest’affermazione, sentita anni fa ad una Social Media Week, è diventato un po’ il mio mantra personale: dopo l’Università ho concentrato gli anni in cui normalmente le mie coetanee erano impegnate in stage o prime esperienze lavorative, nel costruire la mia famiglia: non è stata una scelta di principio, ma un naturale fluire di vita, dovuta ad un fidanzamento a distanza ormai mal tollerato.
Nonostante siano nate ben 3 piccole pesti non ho mai perso del tutto il contatto con il mondo del lavoro, pur avendo rallentato enormemente i ritmi, e soprattutto ho mantenuto viva la mia curiosità personale, i miei interessi e la voglia di imparare sempre qualcosa di nuovo.
In quegli anni ho sperimentato molto bene sulla mia pelle le difficoltà del time management nel gestire traduzioni e neonati in simultanea. Nel 2014 ho aperto il mio blog personale che ha significato molto: mi ha infatti proiettata subito nel vorticoso mondo dei media in piena trasformazione dal modello tradizionale a quello digitale.
Ho lavorato fin da subito con i brand e ad un bel progetto al femminile e molto “smart” in Piano C che ha contribuito a fare chiarezza e favorire il mindset giusto grazie al loro percorso di coaching ed empowerment.
Mentre ero alle battute finali del progetto, nel 2016, sono stata assunta come content manager in una grande società di consulenza.

Ma allora, visto che (la mia storia lo dimostra) lo Smart Working funziona, perché fa così paura alle donne?

Percorriamo insieme una carrellata delle resistenze mentali più diffuse.

Le donne sentono doppiamente l’ansia da prestazione e la mania del controllo

Inutile negarlo: un po’ per la natura stessa femminile (o forse per retaggio culturale), un po’ per le esperienze negative, molte donne sono prevenute verso qualcosa che allenti la presa e abbassi la visibilità in ufficio. La famosa “cultura della giacchetta sulla sedia” è dura a morire, è penetrata nel subconscio collettivo e le tracce sono ancora ben visibili.
Per la mia esperienza, non è una diffidenza del tutto insensata: dare visibilità al proprio lavoro è una grande problematica. Spesso le donne si sentono “eroi guerrieri” incompresi proprio perché magari non hanno sgomitato e sono rimaste dietro le quinte, ma la mole e la qualità del lavoro sono tutte lì.

Le donne sono molto brave ad intessere relazioni: lo Smart Working viene visto come potenziale “alienazione” dall’ambiente lavorativo

Come delle moderne Penelope, molte donne sono maestre, in modo del tutto spontaneo, nell’arte di allacciare e nutrire i rapporti interpersonali. Spesso questa abilità permette di avere una visione a 360°, scavalcare silos aziendali, favorire la collaborazione e la rapidità di reazione. Insomma, in una parola: nel fare networking.
Lo Smart Working scombussola le carte, obbliga a ripensare a modelli di comportamento e rielaborare nuove forme di vicinanza. È difficile, specie se non si è native digitali, arrendersi a dover disfare la tela che si è laboriosamente filato per anni e cambiarne la trama.

Lo Smart Working mi farà lavorare di più

Un altro grande, inespresso (e più che lecito) timore è quello di finire a rispondere ad email e telefonate fuori dal canonico nine to five, a compilare bilanci con la mano sinistra e imboccare la pappa al pupo con la destra. Non tutte le donne ambiscono a questo quadretto, che, diciamolo, non è troppo più allettante dell’omogeneizzato nel cucchiaino.
Che questo rischio ci sia, non possiamo negarlo: altrimenti perché sarebbero dovute intervenire le leggi a decretarne l’illiceità come il caso francese?
Il punto è simile al precedente: il mondo del lavoro sta attraversando dei cambiamenti epocali troppo profondi, per i quali è irragionevole ancorarsi al bel mondo antico. Il rischio di arroccarsi è negativo, ma certo, occorre regolamentare i limiti e lavorare alla sensibilizzazione dei dirigenti e responsabili.

Lo Smart Working è il “portarsi il lavoro a casa”, letteralmente

Tendiamo a sottovalutare l’importanza dell’aspetto tangibile nella nostra esperienza di esseri umani: i confini spaziali e ciò che contengono e circoscrivono sono un fattore importantissimo. Immaginate di lavorare in una location alla “Sepolti in casa”: la produttività durerebbe il tempo di mettere piede tra le pile di ciarpame.
In questo senso, ci sono dozzine di studi e di pareri autorevoli su quanto il workplace impatti sulle nostre performance.
Ecco, adesso immaginate le donne, quelle che per secoli sono state dette “angeli del focolare”, che ne sono uscite da pochi decenni.
Bene,contrordine: di nuovo tutti tra le mura domestiche. Si torna a girare la pasta, ma a due passi dalla scrivania con il pc, si stende il bucato, ma in pausa pranzo. Comodissimo eh, ma il rischio di non riuscire a mantenere il focus, è concreto, così come il rischio di non riuscire più a distinguere i confini concettuali oltre che spaziali.
Ogni mansione poi, richiede esigenze diverse: c’è chi tende a lavorare su progetti in cui è richiesta minor interazione (e quindi distrazione) e maggior concentrazione: scrivere un articolo a casa ha molto senso, ma non si può dire altrettanto per ruoli più “live”. Tutti problemi risolvibili, ma che richiedono uno sforzo iniziale che per alcune può essere non di poco conto.

Non lavorare in ufficio ancora significa minor riconoscimento sociale

Oltre al tema della visibilità già esplicato, c’è anche quello della credibilità e autorevolezza: qualunque smart worker si sarà sentito sminuito, come se il lavoro da casa avesse minor valore (non entro nel merito del coworking, che è un’opzione con ulteriori problematiche in cui non mi sono volutamente addentrata).
Questo si traduce in termini pratici nel classico: “mi vai a ritirare le camicie in lavanderia? Tanto sei a casa…” (e scommetto che state annuendo davanti allo schermo, non negate). Per le donne il carico mentale familiare è già spesso estremamente sbilanciato, un ulteriore peso viene vissuto come un ulteriore aggravio che rischia di far crollare la torre di Pisa.
 
Per tirare le fila. Non basta pubblicare le pur valide statistiche o ripetere quanto lo Smart Working sia solo un vantaggio: occorre tenere ben presenti gli ostacoli reali che non vanno amplificati, ma nemmeno liquidati come una generica e deprecabile “resistenza al cambiamento”.
Solo analizzando nel profondo le dinamiche che questo cambiamento comporta, le vestigia che ci chiede di abbandonare e quanto questa rinuncia possa effettivamente pesare ad una fetta della forza lavoro, da entrambe le “barricate” (dipendenti e manager), potremo trarre il meglio dal nuovo che, volenti o nolenti è già tra noi.
 


Un articolo a cura di Sabina Frauzel
Blogger/ Content manager / Digital Strategist.
Sostenitrice delle armonie per contrasto: innovazione e vintage, human e tech. Sempre con un occhio per il punto di vista femminile.