Corporate Innovation, Startup & Entrepreneurship

Nella politica industriale europea ed italiana: Startup e innovazione

Elisabetta Tatì Pubblicato: 11 Ottobre 2017

politica industriale europea e italiana

All’indomani della crisi, l’Unione europea ha reso noto il suo intento di tornare a sostenere le politiche industriali dei paesi membri, nella consapevolezza che l’incentivo adeguato alle imprese consenta il raggiungimento più rapido degli obiettivi Europa 2020 di una crescita sostenibile, inclusiva ed intelligente.
Lo ha fatto attraverso alcune Comunicazioni e dichiarazioni d’intenti della Commissione, principalmente

Non si tratta di immaginare gli Stati membri (e l’Unione stessa) come soggetti erogatori, piuttosto, di considerarli alla stregua di uno Stato “promotore” o “catalizzatore” che si impegni, nei limiti della disciplina sugli aiuti di stato, a favorire un sano ambiente per lo sviluppo delle imprese, soprattutto di quelle innovative (si veda per l’espressione “Stato catalizzatore” D. Rodrik, One Economics, Many Recipes: Globalization, Institutions, and Economic Growth).
Non è un caso, infatti, che l’art. 173 TFUE reciti:
“L’Unione e gli Stati membri provvedono affinché siano assicurate le condizioni necessarie alla competitività dell’industria dell’Unione. A tal fine, nell’ambito di un sistema di mercati aperti e concorrenziali, la loro azione è intesa: 1. ad accelerare l’adattamento dell’industria alle trasformazioni strutturali; 2. a promuovere un ambiente favorevole all’iniziativa ed allo sviluppo delle imprese di tutta l’Unione, segnatamente delle piccole e medie imprese; 3. a promuovere un ambiente favorevole alla cooperazione tra imprese; 4. a favorire un migliore sfruttamento del potenziale industriale delle politiche d’innovazione, di ricerca e di sviluppo tecnologico. […]”

Le tendenze recenti della politica industriale in Europa

La Commissione europea si sta dunque muovendo sul doppio binario dello sviluppo regionale, in particolare con la smart specialization volta all’individuazione delle traiettorie tecnologiche prevalenti, e della politica industriale vera e propria.
Nonostante l’asset europeo prioritario sia individuabile nell’industria manifatturiera, i nodi di intervento possono essere individuati più in generale nel Mercato unico europeo, nella modernizzazione dell’industria, nelle PMI e imprenditorialità e nell’internazionalizzazione.
Ovviamente nel rilancio di una politica industriale, devono tenersi in considerazione varie sfaccettature. Si tratta di una strategia che mira al credito agevolato (come la c.d. Nuova Sabatini o il Fondo di Garanzia in Italia), a favorire gli investimenti con il supporto di “banche pubbliche” (come la Cassa depositi e prestiti italiana o francese e, a livello europeo, la BEI), a prevedere sgravi fiscali (come il credito d’imposta in R&S o il patent box), a sostenere le grandi imprese strategiche come anche le PMI, a mettere in connessione la ricerca astratta con la ricerca applicata o, ancora, a favorire l’innovazione tout court o in specifici settori (come quello high-tech o il manifatturiero).
Il mix di strumenti e la strategia prevalente cambiano da paese a paese, e l’Europa può cercare di guidare, nell’ambito di una prospettiva il più possibile comune, i suoi membri. Di conseguenza, ci saranno paesi traino nell’industria manifatturiera, come paesi più forti nell’industria elettronica o in quella High-tech.
Ci saranno Stati più abituati a catalizzare o incubare le proprie startup, come Governi più capaci di salvaguardare la propria industria tradizionale. Le politiche devono essere, dunque, coordinate nella differenziazione.

Il ruolo delle startup nella politica industriale in chiave comparata

La situazione in tutta l’Europa rispetto alle startup (soprattutto high-tech) è, in generale, peggiore rispetto a paesi come USA e Israele in cui il mercato è fiorente e pesa significativamente sul PIL, grazie ad una cultura più propensa al rischio, alla presenza massiccia di venture capitalist e alla diffusione del Private equity.
Si pensi che Israele può vantare la più alta concentrazione al mondo di startup e venture capital in proporzione alla sua popolazione – quasi 5mila aziende high-tech su circa 8 milioni di abitanti nel 2014. Il paese possiede, inoltre, un’apposita “Israel Innovation Authority“, nota come “Office of the Chief Scientist of the Ministry of Economy” (recentemente è stata avanzata una simile proposta per l’Italia dalla scienza giuridica italiana, si veda in particolare “Una nuova politica industriale in Italia. Investimenti, innovazione, trasferimento tecnologico“).

I piani di sostegno alle startup: il caso di Francia ed Inghilterra… E l’Italia?

In un precedente articolo si era parlato della French Tech. Essa fa parte di una strategia di lungo periodo che la Francia sostiene per supportare il proprio sistema produttivo, una strategia appunto di politica industriale che investe nelle startup.
Anche il Regno Unito, tradizionalmente legato a politiche liberiste, contrarie dunque ad interventi dello Stato nell’economia, si è attivata in modo coordinato con le necessità locali per sviluppare le imprese innovative, in particolare le startup (in realtà in questo campo, le prime iniziative risalgono già al 1994). Si tratta, ad esempio, del progetto “Start-up Britain“: “a national campaign by entrepreneurs for entrepreneurs“. L’Amministrazione svolge il ruolo di “facilitatore” per gli investimenti dei privati e il sostegno delle grandi aziende alle piccole neonate imprese innovative. Pensate che per partire con un progetto startup è sufficiente un’ora!
In Italia manca allo stato attuale, un piano industriale coerente, si osservano più che altro soluzioni disconnesse e spesso non coordinate tra centro e periferia. Il paese è in questo campo fanalino di coda dell’Europa. La Strategia Industria 4.0 sembra, però, rappresentare un passo in avanti. In essa viene esplicitamente menzionato l’impegno verso le PMI e le startup innovative.
L’Italia è intervenuta per questa categoria con il d.l. n. 179/2012 (c.d. Decreto crescita 2.0) creando un registro per le startup innovative, sgravando le imprese dagli oneri burocratici e fiscali per la loro istituzione, preoccupandosi di incubarle e ove possibile accelerarle. Molto deve essere ancora fatto sul piano degli investimenti.
Ad inizio 2017 il MISE ha presentato al Parlamento la Relazione annuale sullo stato di attuazione e sull’impatto della policy a sostegno di startup e PMI innovative. Nel secondo capitolo viene presentata un’ampia panoramica sulle caratteristiche e sulle performance economiche di questi due soggetti e degli incubatori certificati.
L’analisi è molto più articolata e approfondita per le startup innovative in quanto esse rappresentano, come visto, il target principale delle misure varate con Decreto Crescita 2.0. Si legge:

La scelta di concentrare l’analisi sulle startup innovative è data dalla constatazione che queste ormai costituiscono una realtà molto estesa, portatrice di significativi risultati economici di interesse per la comunità.

In sintesi, a tre anni e mezzo dall’avvio della policy, le startup innovative risultano essere 5.942, circa il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e addirittura il 160% in più della popolazione rilevata a metà 2014. In seguito al varo della sezione speciale del Registro delle Imprese, la dinamica delle iscrizioni ha conosciuto una crescita costante, con un picco di 248 startup iscritte nel Marzo 2016.
Il tasso di mortalità appare, anche se in leggera crescita rispetto all’anno precedente, ancora notevolmente basso (1,1%); per la prima volta, inoltre, vengono presentate statistiche sul tasso di sopravvivenza delle imprese, le quali nel 95,1% dei casi risultano ancora attive a tre anni dall’avvio.
A metà 2016, le province con più di 100 startup innovative, localizzate nel proprio territorio risultavano essere 13. Il 44% delle startup innovative avevano la loro sede legale in una delle tre principali regioni – Lombardia, Emilia Romagna e Lazio.
Dati interessanti sono anche quelli sulla forza lavoro occupata e sulle partecipazioni. È interessante notare come R&S e produzione di software rappresentino rispettivamente il 24% e 7% del totale delle società di capitali italiane. Il requisito di innovatività più selezionato dalle startup innovative in fase di autocertificazione, risultava essere proprio quello legato ai costi in R&S.

Il rapporto tra ricerca astratta e ricerca applicata: il caso della Germania… E l’Italia?

Eccellenza scientifica e innovazione competitiva non vanno automaticamente di pari passo – F. Onina, G. Viesti (a cura di), Una nuova politica industriale in Italia Investimento, innovazione e trasferimento tecnologico.


L’esempio in negativo è l’Italia, in cui si registrano ottime performance nei rank di pubblicazioni e ricerca scientifica, ma in cui la titolarità dei brevetti e l’investimento privato in R&S si attesta su livelli molto inferiori rispetto ad altri paesi europei. Manca, dunque, il collegamento tra ricerca astratta e ricerca applicata.
L’esempio in positivo è la Germania. Esistono 67 istituti affiliati al Fraunhofer, ovvero il sistema per la promozione e il finanziamento della ricerca applicata. Fondato nel 1949 con soli tre dipendenti, intreccia studio e impresa, a differenza degli istituti Max-Planck, dedicati alla ricerca di base.
Oggi il Fraunhofer ha circa 23mila dipendenti, quasi tutti scienziati e ingegneri, in istituti e centri di ricerca che godono di larga autonomia, anche se legati in un unico network. Ha un bilancio di 2 miliardi di euro, di cui circa 1,7 miliardi sono riconducibili a contratti. Il 70% di questi sono progetti finanziati dall’industria o da istituzioni pubbliche, il 30% sono fondi del Governo federale o delle amministrazioni regionali.
L’attività dei Fraunhofer spazia in aree che devono avere un impatto diretto sulla vita delle persone ed essere applicabili nell’industria (si veda il Sole24ore al seguente link).
In Italia abbiamo le c.d. “imprese spin-off della ricerca pubblica” o startup universitarie, fondamentale strumento di valorizzazione dei risultati della ricerca, nonché elementi cruciali del processo di trasferimento tecnologico pubblico-privato.
Si tratta di imprese costituite da un ricercatore per la valorizzazione commerciale del know-how maturato nella sua attività di ricerca. L’impresa è dunque costituita tra i ricercatori, l’università ed uno o più enti esterni, ed assume personalità giuridica distinta da quella dei proponenti. La disciplina normativa non è esaustiva essendo, di fatto, molto demandato alle Università quali amministrazioni con particolare autonomia (si segnala, in particolare, il d.lgs. 27 luglio 1999, n. 297, artt. 1, 2, e 3; recentemente il decreto del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca del 10 agosto 2011, n. 168, ma, anche, l’art. 1 co. 115 della legge di bilancio 2017, si veda a questo proposito A. Bax, S.Corrieri, Il Testo unico sulle società partecipate e le imprese spin-off della ricerca pubblica: una convivenza possibile reperibile al seguente link).

Conclusioni

Quindi, si percepisce per le startup un rinnovato interesse da parte dell’Europa e di alcuni dei principali paesi membri. Vi è la volontà di superare gli ostacoli e di adottare strumenti sempre più efficienti, capaci cioè di avvicinare le performance del mercato europeo a quello statunitense. Tali tipologie di imprese, infatti, rientrano coerentemente tra gli obiettivi dell’Europa 2020, come gemme di quell’innovazione che più di tutti gli altri fattori può sostenere la crescita e la trasformazione del vecchio continente.
L’italia può senz’altro trarre vantaggio dal benchmarking, continuando a rafforzare il percorso iniziato con la categoria delle startup innovative e ponendo maggiori sforzi nella creazione di un mercato di investitori interessati a sostenere gli spin-off nella loro fase di sedimentazione. Impegno necessario è, inoltre, quello nella promozione della ricerca applicata, che avrebbe ricadute positive anche per l’occupazione giovanile.
Ad oggi, non solo le imprese in trasferimento tecnologico, faticano a trovare manodopera qualificata, ma anche i giovani (imprenditori o semplicemente professionisti) hanno difficoltà a ricevere buone offerte, se comparate ai mercati del lavoro stranieri.