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È arrivato il momento di ragionare come una community

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Articolo pubblicato il 18 aprile sul blog “L’arte di lavorare” (vedi)
 
Condivido un concetto letto in un interessante libro che parla dell’economia del Noi, Weconomy: “C’è chi sostiene che l’economia è in crisi. Chi invece no.” Credo che solo una certa economia lo sia: quella fondata su una visione ristretta e individualista incapace di relazionarsi con l’innovazione collettiva. Questa economia basata sulla voglia di affermare se stessi e la propria personalità ha diffuso una molteplicità di “energie individuali” che ha consentito lo sviluppo dell’economia di massa. Volendo semplificare il processo evolutivo dell’economia degli ultimi anni: l’individualismo ha avviato il collettivismo. Occorre però fare un’annotazione: stiamo passando da un’era di produzione di massa a un’era di innovazione di massa. La gente non vuole più aspettare in maniera passiva prodotti, servizi e notizie ma vuole partecipare al loro processo creativo, produttivo e distributivo. Ora ci sono gli strumenti a disposizione.
 
Il web 2.0, i social media e la generazione dei nativi digitali stanno imponendo nuove pratiche, più aperte, più partecipative, più trasparenti. Sono state introdotte le tecnologie sociali che facilitano la condivisione di contenuti, accelerano il flusso informativo, stimolano la collaborazione. Bene. Adesso bisogna investire nella creazione di una cultura collettiva. Ora a parlare è una community, un insieme di persone legate da un principio, da valori, dalla voglia di diffondere e comunicare in massa.
Ma ragioniamo veramente come una community?
In effetti sembra molto strano che gli esseri umani, al giorno d’oggi, possano considerarsi una comunità intelligente visto che hanno passato gli ultimi duemila anni a consumare il pianeta e a “scannarsi” tra loro. Ciononostante, la storia passata narra di numerosi gruppi, popoli e tribù che, operando collettivamente, hanno affrontato le evoluzioni del contesto e applicato la loro conoscenza condivisa per la sopravvivenza o il cambiamento.
Particolare fu il caso studiato da Elton Mayo, sociologo dei primi anni del ‘900, che insieme a dei ricercatori della Western Electric di Chicago analizzò l’incidenza dell’ambiente di lavoro sul rendimento del lavoratore. L’obiettivo era valutare i comportamenti e l’efficienza dei lavoratori al variare di determinate situazioni e parametri d’ambiente. Un risultato interessante si ebbe all’abbassamento dell’illuminazione degli stabilimenti: i lavoratori furono costretti a lavorare più vicini collocandosi nei pressi della fonte di luce. Anziché incidere negativamente sull’efficienza, si creò tra i lavoratori un senso di condivisione e spirito collaborativo che, facendo leva sulle relazioni, si trasformò nella creazione di una sotto organizzazione, una sorta di community, in cui ognuno di essi partecipava in maniera più costruttiva al processo produttivo dell’azienda.
Cosa significa? “L’unione fa la forza” come cita uno dei più noti proverbi. Ma è il singolo che fa la differenza?
Questo è il caso di William Wallace, condottiero medioevale scozzese che guidò i suoi connazionali alla ribellione contro gli inglesi. Nel corso della storia ci sono state numerose situazioni belliche simili. Ho ricordato questa perché il personaggio scozzese, interpretato brillantemente da Mel Gibson in uno dei miei film preferiti, “Braveheart”, grazie al suo carisma, alla conoscenza delle proprie terre e dei propri abitanti, è stato capace di attivare una comunità verso un obiettivo. Il popolo scozzese, unito da un sentimento comune, quello della libertà, e da un senso di forte appartenenza alla propria patria, riuscì nel tempo a ottenere l’indipendenza.
Dunque, dai casi precedenti emerge che il singolo senza la folla non va molto lontano e la folla, senza la “scintilla accesa” dal singolo, non si mette in moto. Prima di trarre delle conclusioni, analizziamo il caso successivo.
Chi recentemente ha posto l’attenzione sul tema della comunità è stato il Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, che in occasione della sua campagna elettorale del primo mandato andava in giro proclamando uno slogan chiaro e noto a molti. Yes, We can. Un messaggio che non faceva intendere altro, se non richiamare la gente all’azione e al cambiamento. Un cambiamento che poteva manifestarsi solo se l’intera nazione avesse ragionato come comunità desiderosa di ripartire. È così cambiato forse il destino di un Paese che non riusciva a riprendersi dall’11 settembre, giorno dell’attentato terroristico alle torri gemelle di New York.
L’argomento è vasto e si presta a numerose riflessioni e interpretazioni, ma una cosa è certa: se si raggiunge l’obiettivo è la folla che lo fa perché crede in qualcosa, mossa da ideali comuni che toccano emotivamente il singolo. Perché è il singolo che fa la folla. Tengo a sottolineare che non si tratta di tornare all’epoca comunista o rievocare principi marxisti, ma più semplicemente interpretare l’economia con le logiche che caratterizzano il web: collaborazione, condivisione e socializzazione di contenuti con massima trasparenza e integrità ove ognuno è contributore attivo di valore.
Martin Luther King JR, leader dei diritti civili e Premio Nobel per la pace (1964) in uno dei suoi discorsi disse: “spesso gli uomini si odiano perché hanno paura gli uni degli altri; hanno paura perché non si conoscono tra loro; non si conoscono perché non sanno comunicare; e non sanno comunicare perché sono separati”. Ora che le tecnologie digitali uniscono gli uomini e consentono di farli conoscere, perché odiarsi e avere paura gli uni degli altri? Perché non ragionare come una comunità intelligente spinta dalla necessità di cambiare e compiere l’ennesimo passo verso l’infinito processo evolutivo dell’uomo?

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