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Tra zombie e burnout alla ricerca del diritto alla disconnessione

Valentina Marini Pubblicato: 7 Maggio 2020

diritto alla disconnessione

Dopo due mesi di lockdown, la reperibilità continua e la mancanza di paletti stanno rendendo il cosiddetto smart working – che in realtà è telelavoro – una fabbrica di zombie. Se milioni di persone rimarranno in queste condizioni, leggi e garanzie vanno riviste.” Così mi ha colpita l’articolo scritto da Simone Cosimi per Wired.
L’immagine degli zombie, delle occhiaie, della connessione con chiunque e “semprunque”, quando questo dovrebbe essere, come ricorda Rebecca Pope-Ruark, il momento della compassione e dell’equilibrio, che sono più importanti della produttività, specialmente in tempi di incertezza.
Era febbraio e i tragitti da e verso casa scandivano tempi ben chiari per fare il passaggio tra vita e lavoro.
Ho spento il pc, devo andare in palestra”;
Scusami sono in trasferta, non posso occuparmi di questa cosa”;
Ho diverse cose questa settimana, questa cosa la vediamo la prossima.”
Invece ora sembra che dobbiamo trovare tempo per tutti perché siamo a casa, quasi non fosse più concesso avere un’ora libera per lavorare davvero, invece di essere coinvolti nelle riunioni.
Ancora una volta Giovanni Scifoni, con brillante ironia, racconta questa situazione in cui sembriamo “persi nel lavoro”.

Alla ricerca di un già presente diritto alla disconnessione, ora più necessario che mai

Già prima dell’emergenza l’utilizzo degli strumenti di collegamento tra datore di lavoro e dipendente si presentava come un’arma a doppio taglio per il lavoratore, perché se da un lato consentiva flessibilizzazione della prestazione lavorativa, da fare in qualsiasi luogo diverso da quello dell’azienda, dall’altro portava con sé il rischio di essere sempre connessi con il lavoro.
Il diritto alla disconnessione è parte integrante del contratto: il lavoratore deve poter staccare la spina dal proprio lavoro durante il tempo libero, quindi, abbiamo il diritto alla irreperibilità.
Spesso, però, già prima veniva disatteso: l’utilizzo di smartphone, app di messaggistica istantanea, notifiche e-mail in tempo reale, portano ad uno stato di connessione perenne, che in alcuni sfocia in “workaholism“, che si basa per lo più su di una visione sbagliata di come misurare il valore di un dipendente/lavoratore.
Oggi lo scenario è ancora più complesso e il burnout un rischio concreto per un numero sempre più crescente di lavoratori.
L’esaurimento e il crollo sono alla portata di mano per tutti quelli che lavorano da casa con il solo pc, perché la condizione di stress è forte e spesso determina un logorio psicofisico ed emotivo, con vissuti di demotivazione, di delusione e disinteresse con concrete conseguenze nella realtà lavorativa, personale e sociale dell’individuo.


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Qui la causa è chiara e non si può pensare che sia coinvolto solo il personale sanitario. Ci sono grandi diversità, ma parliamo comunque di disagio psicologico. Rapidamente sta diventando un fenomeno comune e onnipresente. Chi continua a lavorare da remoto, vive il rischio di un esaurimento completamente nuovo, rappresentandosi comunque come burnout.
Se abbiamo il lavoro, vogliamo continuare a lavorare bene e quindi proviamo a portare avanti tutte le nuove richieste che ci arrivano contemporaneamente.
Sono sempre tante le decisioni da prendere, ma in un contesto di incertezza totale che ci porta il più delle volte a smantellare quanto fatto e a ricostruire. Tutto questo si unisce alla pressione che stiamo esercitando su noi stessi per fare scelte intelligenti e sicure per noi stessi, per le nostre famiglie, per i nostri colleghi o per gli amici.
Mentre non abbiamo i nostri soliti spazi di svago che ci ricaricano, ci preoccupiamo di utilizzare ogni momento per essere produttivi – come finire un progetto o apprendere una nuova abilità – e allo stesso tempo ci sforziamo di capire il modo migliore per affrontare la nostra nuova realtà.
Abbiamo una serie di nuove preoccupazioni: economiche, perdite di posti di lavoro, per i genitori più anziani, paure per i membri più deboli della nostra cerchia ristretta.

Cosa può aiutarci nell’immediato?

Quello che ormai ci è chiaro è che non è la corsa ad aiutarci, anzi, in questo caso la corsa ci sta danneggiando. Abbiamo fatto bene a farlo nella prima fase. La fase 2 ha bisogno della riflessione per consolidare, strutturare, mettere ordine per fare la strategia, da sostituire alle tattiche dell’emergenza.
Ci serve ricordarci che “Le crisi e le avversità, spesso diventano occasione di crescita interiore” (Isabel Allende), ma dobbiamo avere il tempo della riflessione.

Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento, bensì sottomettere il nemico senza combattere – Sun Tzu


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