Personal Empowerment

Bias cognitivi? Impariamo cosa sono chiamandoli per nome

Rebecca Bruni Pubblicato: 29 Aprile 2022

bias cognitivi come riconoscerli

I bias cognitivi sono dei bug del pensiero razionale. Ogni giorno il nostro cervello si fa guidare da mappe mentali distorte. All’origine di tutto questo ci sono i pregiudizi derivanti da esperienze dirette, oppure da preconcetti non necessariamente di tipo logico. Scopri cosa sono i biases e perché hanno nomi curiosi.

bias cognitivi sono bug del pensiero razionale
I bias cognitivi? Un bug del pensiero razionale, che si fa guidare da mappe mentali distorte.

Bias significato

Cosa significa bias? Il termine inglese, deriva in realtà dall’antica lingua provenzale: “biais” era sinonimo di obliquo e veniva usato per indicare i tiri non dritti nel gioco delle bocce. Dall’uso pratico è poi passato metaforicamente a significare un’inclinazione di tipo mentale, ovvero una distorsione della realtà.

Il corrispettivo di bias cognitivo in italiano è pregiudizio, ovvero un errore di valutazione sviluppato interpretando le informazioni in possesso, anche quando queste non sono logicamente connesse fra loro o semanticamente affini. Tali informazioni vengono quindi elaborate dal nostro cervello in un giudizio privo di oggettività.

Come si chiamano i bias? Nomi strani, mitologici o… Brandizzati

Addentriamoci nei bias cognitivi e analizziamo alcune fra le più diffuse trappole mentali. Sarà molto probabile che tu riconosca meccanismi familiari, che si innescano facilmente nella vita quotidiana. Eppure, a dispetto di una frequenza così tanto comune, i biases portano nomi insoliti, ispirati a modi di dire, ad animali, a miti classici e anche a brand moderni. 

Eccone cinque che ti faranno sorridere e, forse, anche riflettere.

Bias del carrozzone (bandwagon bias)

Bandwagon in inglese significa letteralmente “carro su cui viaggia la banda musicale”, durante le parate cittadine per esempio. “To jump on the banwagon” è il corrispettivo esatto in italiano di “salire sul carro (dei vincitori)”, vale a dire sposare una causa o sostenere un’impresa perché pare destinata al successo.

Come si passa dal modo di dire popolare alla teorizzazione di un bias cognitivo? Semplice! Ogni qualvolta facciamo nostra una convinzione perché è popolare o di tendenza, cadiamo vittime dell’effetto carrozzone.

Effetto struzzo (ostrich effect)

bias cognitivo dello struzzo
Il bias cognitivo dello struzzo porta le persone a evitare ogni tipo di informazione ritenuta potenzialmente non gradita.

Gli struzzi mettono la testa sotto la sabbia per assicurarsi che le uova deposte siano mantenute a temperatura costante. L’errata interpretazione di tale comportamento ha ingenerato un modo di dire che non ha nulla a che vedere con il comportamento premuroso del grande pennuto: “Mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi” significa, infatti, nascondersi davanti ai pericoli e alle difficoltà. 

Da qui la derivazione del nome del bias cognitivo dello struzzo, che porta le persone a evitare ogni tipo di informazione ritenuta potenzialmente non gradita. Le stesse persone, al contrario, saranno più inclini a dare ascolto alle informazioni che confermano i loro preconcetti (bias di conferma). 

Tale elusione della verità può verificarsi in molte situazioni. Pensiamo ad esempio alle paure collegate al lancio di una startup: lo sviluppo di un nuovo progetto, nel quale crediamo fermamente, ci porterà a continui bias cognitivi sia di tipo confermativo, sia quelli di effetto struzzo.

Oppure, immaginiamo un investitore finanziario che controlla molto spesso lo stato del proprio portafogli quando i mercati sono in rialzo ed evita un monitoraggio così assiduo quando le cose vanno meno bene. Nascondere la testa sotto la sabbia non lo aiuterà a perdere di meno, anzi! 

Dare maggiore peso a una notizia perché è quello che volevamo sentirci dire o, viceversa, non voler sapere una cosa, non cambierà lo stato dei fatti

Effetto Pigmalione (Pygmalion effect)

effetto pigmalione
L’effetto Pigmalione, detto anche effetto Rosenthal, è legato all’autosuggestione.

L’effetto Pigmalione, detto anche effetto Rosenthal (dal cognome dello psicologo tedesco che per primo lo ha teorizzato), è un tipo di bias ascrivibile alla tipologia della self-fulfilling prophecy. La profezia che si auto-avvera altro non è che un fenomeno psicologico legato all’autosuggestione.

In pratica se qualcuno ha un’aspettativa su qualcun altro, concentrerà i propri sforzi e adeguerà i propri comportamenti per fare sì che tale convinzione venga soddisfatta. 

E proprio su questo assunto si è basato l’esperimento di psicologia sociale, condotto dal dottor Robert Rosenthal e dalla sua equipe, alla metà degli anni Sessanta. Alcuni bambini di una scuola elementare in California (U.S.A.) furono sottoposti a un test per l’intelligenza. Senza controllare gli esiti dei test e in modo del tutto casuale, gli psicologi selezionarono un gruppo ristretto di bambini e fu detto ai loro insegnanti che si trattava di soggetti dall’intelligenza fuori dal normale. 

I maestri e le maestre furono talmente suggestionati dagli esiti (fasulli!) del test scientifico che, un anno dopo Rosenthal, recatosi alla medesima scuola per una verifica, riscontrò quanto segue: il rendimento dei bambini dichiarati “super intelligenti” era davvero molto migliorato.

Il motivo? Gli insegnanti li avevano influenzati con il loro atteggiamento di positiva aspettativa.

Il nome dato a tale fenomeno, poi classificato come bias cognitivo, deriva dalla celeberrima commedia teatrale di George Bernard Shaw del 1912. A sua volta il commediografo aveva tratto spunto dal mito greco narrato da Ovidio: lo scultore Pigmalione, re di Cipro, aveva modellato nell’avorio un nudo femminile talmente bello da innamorarsene perdutamente.

Dormendole accanto aveva desiderato che si animasse e con tale speranza aveva chiesto alla dea Afrodite di fare in modo che la sua statua diventasse viva. La dea colpita dalla potenza di quell’amore acconsentì: la statua divenne una donna in carne e ossa, e Pigmalione coronò il suo sogno sposandola.

Effetto Google (Google effect)

effetto google bias cognitivo
Il cervello tende a non memorizzare ciò che si trova facilmente online. Quando si confonde la reperibilità con l’apprendimento siamo in balia dell’effetto Google.

I motori di ricerca, Google su tutti, sono una fonte (quasi) inesauribile di informazioni. Quando abbiamo bisogno di una risposta, sappiamo dove cercarla. Così facendo impariamo ad assegnare priorità diverse alle informazioni da conservare. In pratica, il cervello umano – per adattamento evolutivo – tende a non memorizzare ciò che si trova facilmente online. 

Facciamo un esempio. Stai cercando il significato di una parola che non conosci e usi Google per scoprire cosa significa. Ciò non vuol dire che ne imparerai il significato. Il tuo cervello infatti confonde la facilità di reperibilità con l’apprendimento e, probabilmente, potresti avere nuovamente bisogno di vedere la definizione della medesima parola qualche tempo dopo. In questo caso, saresti vittima del Google effect.

Tale bias cognitivo è stato individuato nel 2011 per la prima volta grazie a un team di scienziati della Columbia University, guidati dalla professoressa Betsy Sparrow. 

Nell’articolo “Searching for the Google effect on people’s memory” pubblicato su Science Magazine sono stati descritti gli effetti dei motori di ricerca sulla memoria. In particolare, il gruppo di studio ha evidenziato come Internet, e in particolare Google, sia diventato una sorta di memoria di scorta: un hard disk esterno di sicurezza.

In altre parole, non ci serve ricordare ciò che sappiamo essere disponibile online, ma abbiamo sviluppato una capacità di reperire molto rapidamente la risposta ai nostri bisogni.  

Non credo che Google finirà per renderci più stupidi, stiamo solo cambiando il nostro modo di ricordare le cose.

Betsy Sparrow

Effetto Ikea (Ikea effect)

Come il Google effect così anche l’IKEA effect è stato analizzato per la prima volta nel 2011. Gli autori della ricerca sono alcuni studiosi della Harvard Business School. Il team di studio, sotto la guida del professor Michael Norton, ha riscontrato che le persone tendono ad attribuire maggiore valore (anche economico) agli oggetti realizzati con il proprio contributo.

Anche se abbiamo semplicemente assemblato un mobile standardizzato, senza alcuna creatività aggiunta, per il solo fatto che è frutto del nostro impegno lo sopravvalutiamo rispetto al valore effettivo. Questo bias cognitivo, prima ancora di essere definito dagli studi scientifici, era ben noto ai marketers. Alcune strategie di marketing aziendale, infatti, prevedono un prezzo più alto per personalizzare il prodotto.

Come funziona? L’utente ci mette l’idea, oppure la manodopera, e l’azienda – senza avere sostenuto costi aggiuntivi – applica un prezzo maggiorato per la personalizzazione, recepita dal cliente come un plus di valore.

L’azienda, presa come esempio per corroborare la propria tesi da Norton e dai suoi colleghi, è il rivenditore americano Build-A-Bear. I loro workshop danno modo di creare orsacchiotti personalizzati, nelle dimensioni, negli abiti e negli accessori. Un’esperienza interattiva per la quale gli utenti sono disposti a pagare un sovrapprezzo rispetto al prodotto già confezionato. 

build a bear workshop
Il Build a Bear Workshop.

L’effetto IKEA non è necessariamente sbagliato: la nostra creatività può essere effettivamente un valore aggiunto per il prodotto finale, purché si riesca a darle il giusto peso senza sopravvalutarsi.

A tal proposito anche l’eccesso di presunzione di sapere rientra fra i bias cognitivi e porta il nome di effetto Dunning-Kruger. Meno siamo competenti più abbiamo la tendenza a sovrastimare la nostra bravura, mentre l’aumento di conoscenza ci rende consapevoli di quanto ancora resti da imparare per migliorare.

Una verità vecchia come il mondo. Come diceva il filosofo Socrate:

È dunque probabile che io sia più saggio di lui almeno in un particolare: che le cose che non so neppure credo di saperle.

I bias cognitivi sono un bene o un male?

Ogni giorno, e spesso più volte al giorno, capita che le nostre valutazioni e scelte siano influenzate dai bias cognitivi. Non sempre ciò si rivela un male. Alcune volte le mappe mentali distorte ci portano fuori strada, altre volte però ci danno modo di prendere valide scorciatoie.

La differenza nell’esito finale sta tutta nella consapevolezza. Sapere quali meccanismi mette in atto il nostro cervello, quando lo fa e perché, ci dà modo di farlo funzionare meglio: in modo razionale e consapevole. Evitare di adottare modelli di comportamento inconsci, in un mondo che cambia a velocità doppia, non è facile.

Il pregiudizio cognitivo è uno strumento di supporto mentre navighiamo in scenari sempre più complessi. Affinché diventi una bussola di orientamento e non una direzione casuale, è importante riconoscere i bias cognitivi lungo il percorso, in modo tale da non caderne vittima. 

Prenditi tutto il tempo necessario! Sappi, infatti, che sono stati identificati almeno 200 bias cognitivi. Alcuni di essi ti suoneranno più familiari di altri. Concentrati su quelli e analizza in quali contesti riconosci di mettere in atto il comportamento ad essi peculiare. 

Per un corretto approccio, secondo i principi della moderna neuroscienza, è importante lasciare da parte ogni pregiudizio, anche quando ci si trova a esaminare proprio i nostri pregiudizi. È tempo di togliersi la maschera! Obiettività e consapevolezza sono alla base dell’evoluzione cognitiva e comportamentale. 

Buon percorso e “Nosce te ipsum”.